mercoledì 31 luglio 2019
Per Giovanni Tesio lo «ha la tempra di Pascal, Machiavelli, Montaigne. E di Manzoni, a lui carissimo. La sua è un’indagine serratissima sul male, condotta con rigore ed eleganza»
Primo Levi, l'ultimo moralista classico
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Giovanni Tesio ha il rammarico di aver disatteso almeno una delle raccomandazioni di Primo Levi. «Mi esortava a studiare le lingue straniere, ma in questo purtroppo non sono stato un buon allievo», ammette il professore, già ordinario di Letteratura italiana presso l’Università del Piemonte Orientale. In compenso un destino cosmopolita è toccato a Io che vi parlo, il volume del 2016 nel quale Tesio ha raccolto le conversazioni con Levi svoltesi all’inizio del 1987, nell’imminenza della morte dello scrittore: «Il libro ha avuto moltissime traduzioni, compresa una in coreano», dice lo studioso, che nel frattempo ha continuato a occuparsi dell’opera di Levi (è dell’anno scorso Primo Levi. Qualcosa ancora da dire, edito da Interlinea). I suoi contributi insistono su aspetti finora poco considerati, tra cui la presenza di temi e motivi biblici nelle pagine di un autore troppo a lungo considerato agnostico. «Forse ci si è eccessivamente fidati di alcune sue affermazioni, scambiandole per dichiarazioni di principio», suggerisce Tesio, a sua volta poeta e narratore.

A che cosa si deve l’attuale cambio di prospettiva?

A un processo in buona parte comprensibile, che riguarda il sempre maggior riconoscimento critico conseguito da Levi negli ultimi anni. Ora che è diventato un classico, possiamo cogliere pienamente aspetti che, in precedenza, restavano in parte nascosti. Certo, quando parlava del suo rapporto con il sacro Levi sembrava non lasciare spazio alla discussione. Oggi però ci accorgiamo che, attraverso le maglie di un ragionamento in apparenza tanto rigido, si intuisce una visione molto più ampia e stratificata.

La conoscenza della Bibbia è uno di questi indizi?

Per quanto provenisse da un contesto familiare secolarizzato, Levi era pur sempre un ebreo e la Bibbia rappresentava per lui un fatto acquisito. Nei suoi scritti la cita molto spesso, con una frequenza che si intensifica nel tempo, in parallelo alla crescente complessità della sua riflessione. Contribuisce, in questo, il rapporto con altri autori, che Levi pare rileggere alla luce delle Scritture. Per quanto mi riguarda, credo che anche l’amore per Dante sia in qualche misura mediato dalla Bibbia, e così quello per T.S. Eliot, che per Levi costituisce un altro riferimento importante, come conferma la sua inclusione nell’antologia personale La ricerca delle radici.

Qual è la Bibbia di Levi?

Il primo contatto avviene durante l’infanzia, quando il giovanissimo Primo frequenta la Scuola del Tempio. Ma non va sottovalutata l’esposizione costante alla tradizione pittorica, nella quale la raffigurazione di episodi biblici abbonda. Avviene per la Scrittura quello che avviene per Dante, appunto: Levi vi si accosta da una prospettiva laica, senza che questo gli impedisca di cogliere la possibilità di una dimensione ulteriore di senso. Un percorso molto articolato, ma non privo di inciampi.

Quali?

Dopo Auschwitz Levi torna a più riprese sulla Commedia, ma non va mai oltre l’Inferno, nei cui versi riconosce un linguaggio capace di restituire l’assurdità della persecuzione. Lo slancio metafisico del Paradiso non riesce a sollecitare il suo interesse. In Dante, come nella Bibbia, Levi trova anzitutto le parole dello sdegno e della condanna, in una manifestazione di emotività che non contraddice, ma semmai rende più apprezzabile la sua proverbiale mitezza.

In quali zone della sua opera l’eco della Bibbia si fa più evidente?

In primo luogo nelle poesie, a cominciare dai celebri versi posti in apertura di Se questo è un uomo. In Ad ora incerta, poi, i rimandi alla Scrittura sono numerosi, riconoscibili e decisivi, sempre nel segno di una forte reattività morale. Penso all’invettiva Per Adolf Eichmann («O figlio della morte, non ti auguriamo la morte…») e a un testo sconvolgente come Annunciazione, nel quale l’episodio evangelico viene stravolto per alludere alla nascita diabolica di Adolf Hitler. Qui Levi dimostra di aver assimilato l’aspetto più duro e vendicativo della Bibbia, e se ne serve con terribile efficacia. Ma qualcosa di simile accade in Se non ora, quando?, il romanzo nel quale Levi mette in gioco in maniera più vistosa la propria identità ebraica. Non per niente, è una storia di insurrezione e di rivolta, è la cronaca non del tutto immaginaria di un gruppo di partigiani ebrei che sceglie di “rendere il colpo” anziché continuare a subire. Non si tratta, in ogni caso, di un ribaltamento assoluto. Nonostante tutto, Levi si identifica principalmente nella figura di Mendel, il personaggio che in Se non ora, quando? tenta di mantenere il proprio comportamento su una linea mediana, razionale. Il distacco dello stoico resta, anche sotto questo aspetto, la massima aspirazione di Levi.

Non sempre compresa, verrebbe da aggiungere.

La polemica con Jean Améry, che lo accusava di essere un “perdonatore”, non è l’unica occasione in cui Levi ha mostrato la volontà di andare controcorrente. Già dal punto letterario è un autore inclassificabile. Non c’è dubbio che Se questo è un uomo sia un racconto della realtà, eppure non può in alcun modo assimilato al neorealismo. Nel 1978, in un periodo segnato dalle lotte sindacali, La chiave a stella presenta un personaggio politicamente opaco come l’operaio Faussone. Più in generale, Levi ha avuto il merito di dare cittadinanza a molte questioni tecniche (tecniche, ripeto, più che scientifiche) in una cultura come quella italiana, caratterizzata da un’ingente ipoteca umanistica. Ma la sua iniziativa più coraggiosa rimane la meditazione morale affidata a I sommersi e i salvati. L’esplorazione della cosiddetta “zona grigia” si colloca all’interno di un’indagine serratissima sulla natura del male, condotta con il rigore e l’eleganza di un moralista classico. Ecco, sono convinto che questa sia la definizione che meglio si adatta a Levi e che ne esalta la statura: un autore della tempra di Machiavelli, Pascal, Montaigne. E di Manzoni, altro scrittore a lui carissimo.

Posso chiederle che cosa ritiene di aver imparato da lui?

Per quanto mi riesce, cerco di emulare l’esattezza della sua parola, la sua chiarezza nell’espressione. Ma senza dimenticare che al di sotto di quella trasparenza sta una profondità inesauribile.

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