sabato 30 aprile 2016
COMMENTA E CONDIVIDI
Sessantadue anni di calcio su 77 di vita. È Gigi Simoni, il recordman delle promozioni, il globetrotter delle panchine. Anche all’estero, in Bulgaria con il Cska di Sofia. Ma soprattutto in posti come Gubbio, nel tratto più appenninico e bucolico della sua carriera, per ritrovare una francescana atmosfera pallonara e sfuggire ai nuovi lupi del calcio industriale. Quelli che vengono da lontano, strade dell’est tra Russia e Cina, e ululano ai chiari di luna di avventurose incursioni, più che altro a caccia di nuovi mercati, immagine e corsara notorietà. Robe dell’altro mondo, è il caso di dire. Soprattutto per chi come Gigi Simoni ha sempre messo il cuore in prima fila. Fermandosi sulla panchina finché il clima era quello giusto, ma facendo le valigie quando l’aria diventava pesante, al pallone spuntavano gli angoli e smetteva di rotolare. «Dove mi sono fermato di più è stato al Genoa – racconta il veterano bolognese di Crevalcore che il Grifone ha inserito nella sua Hall of Fame –. Lì ho chiuso la carriera da calciatore nel 1974 e l’anno dopo ho cominciato quella di allenatore. Ma dove ho lasciato e ripreso il mio cuore è alla Cremonese. L’ho allenata, riportata in serie A, salvata due volte e portata persino a vincere a Wembley il torneo Anglo-italiano. Da due anni ne sono il presidente, grazie alla chiamata del Cavalier Giovanni Arvedi. E ho sempre davanti agli occhi le enormi impronte di Domenico Luzzara che è stato un pezzo della mia vita. Il presidente che ho amato di più e che si faceva più amare. Se ne è andato proprio il 29 aprile di dieci anni fa. Lui era la città, la squadra, per 35 anni il padre di ogni giocatore. L’esatto contrario del calcio di adesso. Altro che questi ricconi e speculatori russi, cinesi o americani». Simoni, secondo lei questi magnati stranieri lontani dal nostro mondo fanno male o bene al calcio? «Premesso che nel breve periodo i loro investimenti portano risorse, credo che alla lunga finiscano con il lasciare più macerie che altro. Sono convinto che alla fine siano più che altro operazioni di marketing per allargare il mercato dei loro imperi economici. Certo, anche ai nostri proprietari e presidenti un club dava e dà lustro, ma se c’è un radicamento nella città e nella gente cuore e passione diventano il vero valore aggiunto. Penso a uno come Moratti». Anche se l’aveva esonerato? «Ma questo non c’entra, è il rischio del calcio. Moratti è stato l’emblema del presidente ideale, quello innamorato del club. Disposto anche a perderci un sacco di quattrini. Certo, era ricco di famiglia però era anzitutto tifoso da una vita, fin da bambino, quando l’Inter era di suo padre Angelo. Io sono ancora molto legato affettivamente a Massimo Moratti e a quei due anni all’Inter. Altri tempi». Altri tempi anche quelli in cui veniva considerato un filibustiere uno come Giussy Farina... «Figurarsi! A confronto con gli speculatori di oggi era un dilettante. E poi lui in fondo il cuore in campo ce lo metteva. Certo, non come Anconetani, Luzzara, Rozzi o Dino Viola alla Roma. Ricordo che con Viola avevo quasi raggiunto l’accordo. E mi avevano anche già consegnato una medaglia della Roma, ma poi all’ultimo sfumò tutto». Perché, cosa successe? «A consegnarmi la medaglia fu Luciano Gaucci che allora era vicepresidente. Ero stato a colloquio con Viola per la panchina giallorossa e mi ero preso mezza giornata di tempo per parlarne in famiglia e poi dare l’assenso. Viola però nel frattempo aveva contattato anche Eriksson. Gaucci non lo sapeva e mi chiamò nel suo ufficio per darmi il benvenuto regalandomi una medaglia. Troppo vulcanico anche quella volta». Tra i presidenti vulcanici e padri-padroni c’erano anche Anconetani e Rozzi. «Con Rozzi avevo avuto contatti per allenare l’Ascoli, ma non se ne fece nulla. Un grande personaggio che amava la squadra con tutto se stesso. Come Rozzi anche Anconetani ha avuto una gestione paternalistica del club. Era un appassionato e guidava il Pisa con l’aiuto di amici, pagava regolarmente gli stipendi, faceva quadrare i conti in banca e ha portato la squadra in A, con me in panchina. La sua soddisfazione era vedere l’impegno e lo spirito di squadra dei giocatori». Altri presidenti “pane e salame”, specie ormai in via di estinzione? «Un altro presidente che agiva come un papà è stato Sergio Saleri quando allenavo il Brescia. Un industriale che aveva giocato e aveva il piacere di continuare a essere parte del mondo del calcio. È stato uno dei presidenti più importanti della mia carriera. Col Brescia ho avuto una promozione in A da calciatore e una da allenatore». Ma di padroni un po’ filibustieri ne avrà pur incontrato qualcuno... «Tra i più particolari della mia lunga carriera c’è stato Ermanno Pieroni all’Ancona. Comprando la società aveva voluto fare un investimento a scopo di lucro, era un uomo d’affari. Finito anche in galera per il fallimento dell’Ancona, altra squadra che ho portato in serie A. Aveva fatto come molti altri presidenti speculatori e come temo stiano facendo alcuni magnati stranieri che vengono qui a comprare al supermercato del calcio». E i tifosi? Sono contrari o favorevoli in generale a chi fa la spesa in Italia pagando in yen, in dollari o in rubli? «Beh, loro vogliono che la squadra funzioni. Per questo, magari qualcuno turandosi il naso, accettano che arrivi chi può promettere e garantire che arrivino i giocatori migliori. Il tifoso accetta anche il riccone che arriva da lontano purché possa investire e far sognare. Ma la vera ricetta per la salute del calcio sono i proprietari e presidenti di casa nostra. Quelli che all’inizio erano tifosi della squadra e della loro città. Un sogno un po’ costoso che qualche volta è ancora realtà». © RIPRODUZIONE RISERVATA Calcio All’invasione dei nuovi “padroni” dei club di Serie A risponde Gigi Simoni: «Gli stranieri? Comprano e poi lasciano macerie Moratti è un modello» Il presidente della Cremonese Gigi Simoni Domenico Luzzara Romeo Anconetani Costantino Rozzi Angelo Massimino
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: