lunedì 27 giugno 2016
Samaritano, il prossimo è MISERICORDIA
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Un esperto della Legge, la Torà di Israele, pone una domanda a Gesù. La sapienza di un uomo si manifesta sempre nel tenere aperte le domande essenziali della vita. E certo la sua domanda riguardava la vita nella sua interezza, la “vita eterna”. Gesù a sua volta vuole che a rispondere sia lui stesso, che ribadisce il duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, compimento della Legge e dei Profeti. A quel punto il maestro di Nazareth non può che esortarlo a vivere ciò che aveva professato: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai». È bello questo colloquio dei due, che mostra come Gesù accetta di dialogare con le nostre domande per suscitare in ognuno la ricerca di una risposta. Il colloquio continua, perché quel saggio non si accontenta dell’invito di Gesù. Il vangelo dice che «volendo giustificarsi», chiese a Gesù chi fosse il suo prossimo. Quell’uomo si riteneva giusto. Tuttavia non si chiude nella sua giustizia. Ed ecco la parabola, risposta in forma di racconto. Quante volte l’abbiamo ascoltata, ma la Parola di Dio contiene sempre delle sorprese. Come dice Gregorio magno: «La Bibbia cresce con chi la legge». Quel sapiente ci insegna proprio questo. Mai davanti alla Parola di Dio dare per scontato di aver capito tutto, mai pensare di essere totalmente nel giusto!La parabola è semplice nel suo sviluppo. Un uomo scende da Gerusalemme e Gerico su una strada pericolosa. Infatti incappa nei briganti, «che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto». Siamo di fronte a un uomo il cui rischio è la morte, date le condizioni in cui viene lasciato dai briganti. La situazione di quell’uomo rappresenta molto bene la condizione di tanta gente del nostro mondo. Pensiamo solo ai profughi che fuggono dai loro paesi per la guerra o per la violenza, l’ingiustizia, la povertà, le calamità naturali. Oppure guardando tanti in mezzo a noi, come gli anziani soli o in istituto, i disoccupati, i sena fissa dimora, gli zingari, e quanti altri che sono considerati “lo scarto” della nostra società, come direbbe papa Francesco. Come comportarsi con loro? Sono anche questi il prossimo, cioè persone da amare. Infatti, per quel saggio che interroga Gesù il “prossimo” coincide con i membri del proprio popolo. La domanda posta a Gesù risulta essere fondamentale per il suo e il nostro futuro e per la vita di ogni giorno, sempre che la si voglia vivere in conformità al Vangelo e non a noi stessi.
L’incontro con quel poveraccio avviene «per caso», dice il vangelo. Quante volte capita di imbattersi per caso in uomini e donne mezzi morti, magari proprio come quello del vangelo, ai bordi della strada, sui marciapiedi. Cosa avviene davanti a quel malcapitato? Passano un sacerdote e un levita, lo vedono e passano oltre. Il verbo greco antiperxomai è molto interessante. Già di per sé parerxomai significa passare oltre. Quell’anti sottolinea che ce l’avevano proprio di fronte, non potevano non vederlo. Quante volte si vedono donne e uomini bisognosi, ce li troviamo di fronte, siamo quasi costretti a vederli, e si passa oltre. La fretta, la paura di farsi carico di un sofferente, per giunta pure sconosciuto, fanno a volte affrettare il passo. Poi passa un Samaritano, un estraneo rispetto a quell’uomo. Infatti tra abitanti della Giudea e abitanti della Samaria non correva buon sangue, come sappiamo dai Vangeli. Qui tutto cambia. Anche il Samaritano gli passa vicino, e «vedendolo ne ebbe compassione». La Bibbia Cei non traduce in maniera uniforme questo verbo, ma la traduzione “avere compassione” è forse quella più accettabile e comune. Si trova nei Vangeli Sinottici 12 volte: cinque in Matteo, quattro in Marco e tre in Luca. Solo in tre casi il soggetto della compassione non è direttamente Gesù. In Lc 10,33 è il Samaritano, in cui chiaramente, come intesero i Padri, vediamo Gesù stesso. Gli altri due casi si trovano in parabole e sono abbinati a figure di Dio.
I casi in cui è Gesù stesso il soggetto sono così distribuiti. In Marco e Matteo i due racconti di moltiplicazione dei pani sono introdotti sempre dalla compassione di Gesù. In altre quattro ricorrenze Gesù “ha compassione” davanti a un malato o a una richiesta di vita (il caso della vedova di Nain in Lc 7,13). In Mt 20,34 Gesù sta di fronte a due ciechi che chiedono la guarigione. Lo stesso in Mc 1,41 davanti a un lebbroso che «lo supplicava» per essere purificato. In Mc 9,22 è il padre di un ragazzo indemoniato che si rivolge a Gesù chiedendogli di avere compassione per il figlio. È significativa la menzione di Mt 9,36. Gesù, seguito da una folla numerosa, vedendola «ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Dopo di che chiede ai discepoli di pregare perché il «signore della messe mandi operai nella sua messe». E di seguito egli stesso invia i discepoli in missione.Si potrebbe riassumere il sentimento di Gesù come qualcosa che nasce dal bisogno di fronte a cui si viene a trovare. Ma che cosa è la compassione? Da che cosa nasce e che cosa implica? Il verbo greco deriva da una radice che ha a che fare con il ventre della madre quando ha in sé il figlio, nasce quindi da una relazione di profonda intimità. Il figlio è un tutt’uno con la madre, che ne sente la presenza, i battiti, i sussulti. La madre sente con il figlio. Egli fa parte della sua stessa vita. Così è il sentimento di Gesù, che condivide con Dio Padre e che quindi esprime nella sua esistenza terrena. Noi siamo parte della sua vita, come il figlio è parte della vita della madre specie quando sta nel suo ventre. In questo senso si potrebbe dire, come ebbe a dire Giovanni Paolo II, che Dio è Padre ma anche madre. Gesù viene a condividere la nostra stessa vita. Anzi, egli come una madre ci nutre e ci fa crescere. Si occupa dei suoi figli quando sono colpiti dal male perché riabbiano la vita in pienezza.
La compassione nasce quando Dio Padre o Gesù, il figlio, si trovano davanti a una richiesta di aiuto esplicita o al bisogno: il figlio perduto, il servo indebitato, un lebbroso, dei ciechi, un indemoniato, una vedova che piange il figlio morto, una folla numerosa e affamata, un uomo rapinato e mezzo morto. La compassione dovrebbe quindi nascere anche in noi quando qualcuno sceglie di guardare e di fermarsi davanti al bisogno e all’esclusione. La parabola del Buon Samaritano mostra bene questo aspetto della compassione. Infatti la differenza tra il sacerdote, il levita e il samaritano è data proprio della compassione, che introduce una svolta radicale nel racconto e nella vita dell’uomo rapinato e mezzo morto al bordo della strada. La compassione cambia radicalmente il rapporto tra i due soggetti: l’uno sente l’altro come parte della sua stessa vita superando l’estraneità che intercorre tra di loro. Questo aspetto istituisce un nuovo rapporto di familiarità e di intimità, simile a quello della madre per il figlio. Se rileggiamo Mt 25,31 ss, dove Gesù si identifica con i poveri, i poveri sono identificati con Gesù stesso, quindi chi li incontra e li soccorre entra a far parte della famiglia di Gesù, perché i poveri sono «i suoi fratelli più piccoli». Per il discepolo si tratta quindi non solo di assistenza a chi si trova nel bisogno, ma di ingresso in un nuovo rapporto con Gesù e i poveri, si potrebbe dire l’ingresso in un nuovo popolo, quello che Sofonia chiama «il popolo degli umili e dei poveri» (Sof 2,3). La “compassione” rende quell’uomo “fratello” da amare come se stesso, secondo l’antico comandamento dell’amore. Al termine del racconto è Gesù che pone una domanda al dottore della Legge: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Come si può sapere «chi è il prossimo?». La domanda di quel saggio appariva piuttosto teorica, forse un po’ come alcune inchieste che, pur necessarie, si limitano a offrire dati statistici. Oppure come certi piani pastorali che offrono delle belle descrizioni della diffusione della povertà senza interrogarsi sulle persone che ne sono colpite e sulle scelte da compiere nei loro confronti. Il prossimo si scopre facendosi prossimi, avvicinandosi a chi è nel bisogno e prendendosi cura di lui. Ciò appare ora chiaro anche a quel sapiente che risponde: «Chi ha avuto misericordia di lui». «Misericordia», e non «compassione», come verrebbe la traduzione della Cei, è la traduzione corretta del greco eleos. Compassione e misericordia nei confronti di quel bisognoso costituiscono l’unico agire possibile per imparare a riconoscere l’altro come “prossimo”, cioè colui che dobbiamo amare. E costui si riconosce incontrando il povero, rappresentato da quel malcapitato incappato nei briganti e abbandonato a sé stesso lungo la strada. Solo attraverso la presa in carico di quel poveraccio i discepoli di Gesù potranno vivere pienamente il grande e unico comandamento dell’amore di Dio e del prossimo e potranno avere la vita eterna, come la parabola del giudizio finale nel vangelo di Matteo esplicita con chiarezza. Perciò la conclusione della parabola con l’invito di Gesù: «Va’ e anche tu fa ugualmente».
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