giovedì 9 aprile 2015
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Balzac aveva colto l’essenza di una polemica nazionale che durava dal Seicento mentre scriveva Il capolavoro sconosciuto. Fra le tante cose che Balzac semina nel racconto, infatti, c’è anche sottintesa la querelle che da due secoli si combatteva attorno a Poussin, il pittore filosofo, ma anche il “libertino erudito”, insomma il genio nazionale che la Francia venerava, e venera, come il suo Raffaello. I protagonista del Capolavoro sconosciuto, Frenhofer, riceve la visita dell’amico pittore Pourbus, il quale viene accompagnato da un giovane artista, Poussin appunto. Di fronte al quadro che Frenhofer sta dipingendo i due hanno un moto di sconcerto: gran parte della tela, infatti, è coperta da una informe crosta di colori, e soltanto in un angolo si vede emergere un piede femminile, ma eseguito con sublime verità. Frenhofer insiste a difendere il suo capolavoro che sfida la vita, ne nasce un alterco e il congedo dei due ospiti è brusco e repentino. Il giorno dopo Pourbus tornerà da Frenhofer e scoprirà che si è ucciso. In precedenza, però, Frenhofer aveva cercato di spiegare al povero Pourbus, che si era recato da lui per mostrargli un suo ritratto femminile, che cosa non andava (pur essendo ben dipinto): «Non riesco a credere che questo corpo sia animato dal tiepido soffio della vita. Mi sembra che se posassi la mano sulla gola di questa immobile rotondità, la sentirei fredda come il marmo». Qui Balzac applica a Pourbus la critica che venne mossa, già nel Seicento, a Poussin. La sua freddezza, la cerebralità della sua pittura “di pietra”.La critica era stata rivolta a Poussin da Roger de Piles, artista e diplomatico francese, che aveva ricevuto una formazione filosofica e teologica e soggiornò per qualche anno a Venezia. De Piles scrisse, tra le altre cose, un Dialogo sui colori (1673), dove sosteneva la superiorità della pittura veneziana su Raffaello. Ma ai vertici poneva Rubens, contrapposto a Poussin, il quale, dice De Piles, finisce per dare alla carne l’apparenza della pietra, mentre Rubens fa proprio il contrario, fa sembrare carne la pietra. Lesa maestà? Certo, se si considera che Poussin era già all’epoca, cioè otto anni dopo la sua morte, considerato «le Raphaël de la France», come ricordano Nicolas Milovanovic e Mickaël Szanto, introducendo in catalogo le questioni da cui nasce l’importante mostra che il Louvre ha inaugurato a proposito di Poussin e Dio. E sarà perché si tratta ancora di lesa maestà che i due curatori della mostra nel loro saggio non nominano mai De Piles? Eppure, questo personaggio dalla vita avventurosa fu, con André Félibien, il teorico più ascoltato nel dibattito sulla pittura, dove difendeva, contro Vasari, la supremazia del colore sul disegno. La diatriba si lega bene al tema della mostra, tanto più che i curatori partono dalla polemica suscitata circa vent’anni fa da Jacques Thuillier quando allestì la grande retrospettiva su Poussin al Grand Palais. Thullier disse a chiare lettere che non vedeva in Poussin un vero afflato religioso, anzi aggiungeva che non fu mai toccato dalla grazia, quindi dalla fede, semmai realizzò una sintesi di cristianesimo e stoicismo antico (che bastava però a Fumaroli per farne un pittore cristiano).Poussin era quasi un asceta, non si concedeva lussi, e non li ostentava. Aveva vissuto parecchi anni a Roma, dov’era morto nel 1665. Dire che campasse di niente, d’altra parte, sarebbe comico. Era, appunto, un pittore filosofo, e nell’Autoritratto del 1650, all’età di cinquantaquattro anni, mostra lo sguardo severo e virtuoso del “moralista” che nella mano destra stringe una cartella colma di disegni e al mignolo porta un anello con diamante. Le ultime ipotesi legano questo anello alla figura femminile sullo sfondo che indossa un diadema con al centro un occhio aperto (che il Bellori interpretò come un’allegoria della pittura), a un significato propriamente cristiano: l’occhio sarebbe quello della Provvidenza e le due braccia che cingono la donna evocherebbero l’incontro di Maria con Elisabetta, dove l’anello diamantato rappresenterebbe il simbolo della forza e costanza nella fede in Cristo “divino diamante”, incorruttibile e celeste. Ipotesi ardita, non c’è dubbio. Tuttavia, il fatto che Poussin abbia dipinto circa quaranta quadri dove compare la figura di Mosè, significherà qualcosa, tanto più se si pensa alla lunga tradizione misteriosofica fondata sul “Mosè egizio”. Bisognerebbe anche ricordare che dai Libri Carolini in poi esiste una polemica dei francesi sull’immagine sacra che rifiuta la consustanzialità fra l’immagine e l’archetipo affermata dal cristianesimo orientale (i Libri Carolini furono scritti, infatti, come risposta critica alle conclusioni del secondo Concilio di Nicea). Il sacro per un pittore francese è, in ogni caso, più secolarizzato di quanto non sia per un pittore italiano.

L’Eucarestia che Poussin dipinge pare la cena iniziatica di una setta o la seduta notturna di una scuola eleatica; dello stesso tenore anche il sacramento della cresima. Sono il frutto della meditazione di Poussin sugli antichi (più che su sant’Agostino, come sostengono i curatori della mostra), che egli traspone in una precisa metrica compositiva ammantando l’immagine del significato cristiano (il Cristo del Miracolo di san Francesco Saverio, d’altra parte – e già all’epoca venne così etichettato – sembra una specie di “Giove tonante” che incombe dal cielo).C’è sempre qualcosa di troppo “elevato” in Poussin: L’Assunzione della Vergine sembra venirci incontro con la solidità di una statua, La Sacra Famiglia sulle scale pare più interessata alla dialettica con l’architettura e all’austerità "morale" della vita in una ideale società antica; la Morte della Vergine è una costruzione di elementi retorici dove il dolore e il bouleversament indotto nei discepoli dal trapasso della Madonna non ha più nulla della verità umana, che invece si coglie nel quadro di Caravaggio, spostato per l’occasione poche stanze più in là, sempre al Louvre, dove è allestita, in perfetto pendant, una piccola ma calibratissima mostra, sulla “fabbrica delle immagini sante” a Roma e Parigi tra il 1580 e il 1660. Quattro anni fa il Louvre aveva presentato in queste sale una retrospettiva su Rembrandt e la figura di Cristo. Ne avevamo parlato ricordando quanto fosse stata decisiva la ricerca di Rembrandt se si prova a immaginare il deserto iconografico che si era prodotto nelle chiese olandesi con la Riforma. Molti artisti non avevano più sotto gli occhi modelli a cui ispirarsi. Rembrandt reinventa l’iconografia di Cristo e ce ne restituisce un’immagine profondamente umana senza tradire l’altra natura, quella divina. Se, adesso, consideriamo con la stessa ottica questa mostra sulla costruzione delle immagini sacre a Parigi, tenendo ben in mente la storia dell’iconoclasmo che dopo l’epoca tardo-bizantina riceve dalla Riforma nuova linfa, ci accorgiamo che a venir meno fu la natura umana, rimanendo quella divina una specie d’involucro, di larva, senza empatia; ed è questo un segno della difficoltà a conciliare teologia dell’immagine e incarnazione, così che prevale l’ésprit, cioè la mente e la ragione, anziché il cuore, pascalianamente inteso. È un’arte retorica, che non sembra potersi spingere, per esempio, dentro il dramma della Redenzione – vedi il Cristo morto di Philippe de Champaigne, che pare in posa per una foto, coi truccatori che hanno deposto ai bordi della ferita di lancia un gel colorato che gocciola luccicando su un corpo dove persino i buchi dei chiodi hanno qualcosa d’inverosimilmente grande e innaturale. La morte del Cristo diventa quella di un eroe, il sacrificio per l’idea, a cui, oltre un secolo dopo, l’iconografia rivoluzionaria cercò di dare nuovo pathos simbolico e rituale portando a compimento quella razionalizzazione del sacro che s’intuisce già in Poussin e in altri artisti francesi del suo tempo.
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