venerdì 4 ottobre 2013
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«Al numero 13 di via del Portico d’Ottavia, a fianco dei ruderi romani del Portico, c’è un vecchio portone di legno che si apre inaspettatamente su un vasto cortile circondato da logge rette da colonne antiche, simile più ad un chiostro che ad un cortile d’abitazione. In questa casa ho abitato per 12 anni». Ecco subito spiegato il titolo che Anna Foa ha dato al suo nuovo libro: «Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43» (Laterza, pp. 168, euro 15), da cui riprendiamo in questa pagina un brano. Ma è anche «un tentativo di riparazione, un modo per far pace con quelle persone che il 16 ottobre 1943 hanno sceso dietro la spinta dei fucili tedeschi quei gradini che tante volte 60 anni dopo ho salito inconsapevole».Era festa, era sabato ma era anche l’ultimo giorno di Sukkot. Più tardi alcuni sarebbero andati in sinagoga, non al Tempio grande, che era stato chiuso per precauzione dalla Comunità, ma al Tempio spagnolo, sotto al Tempio grande, dove le funzioni continuavano a tenersi regolarmente. La razzia cominciò poco prima delle 5.30. Il quartiere del vecchio ghetto era circondato, c’erano pattuglie tedesche di guardia a tutte le vie di accesso. Nella Casa di via del Portico d’Ottavia 13, i nazisti non ebbero neanche il bisogno di sfondare il portoncino di legno, che era tutto sfasciato e restava sempre aperto. Entrarono nel cortile a passi pesanti e cominciarono a bussare alle porte col calcio del fucile, là al piano terra, dove si aprivano gli appartamenti e i magazzini. Poi, dal momento che nessuno andava loro ad aprire, sfondarono una porta a spallate, sempre gridando ordini nel vuoto. A quel punto, tutti gli abitanti della Casa erano svegli e tendevano un orecchio atterrito a quanto stava succedendo al piano terra. Una donna che abitava al secondo piano, Cesira Limentani, non perse altro tempo, prese la figlia di 5 anni, avvolse in una copertina il bambino più piccolo, che aveva solo 6 mesi, e insieme ad alcuni dei suoi vicini saltò fuori dalla finestra, verso il retro. Il salto era basso, e riuscirono a fuggire, sottraendosi ai posti di blocco dei tedeschi. Più tardi, trovarono rifugio in un istituto religioso vicino al Gazometro. La donna non credeva davvero che avrebbero preso anche loro, le donne con le creature, ma non si era fermata troppo a pensare e, quando aveva sentito il fracasso della porta sfondata e gli ordini rauchi dei tedeschi, era scappata via subito, d’istinto, con i bambini. E questo salvò loro la vita.
Scrupolosamente, gradino dopo gradino, i nazisti salirono le larghe scale di marmo consunte della Casa, memoria di antichi splendori, fermandosi ad ogni porta senza tralasciarne nessuna. Questo dette ad alcuni degli abitanti il tempo di fuggire. La Casa era piena di anfratti e corridoi, che consentivano di scappare dal retro senza essere visti. Alcuni, pochi però, si erano già allontanati nei giorni precedenti. In tutto, quel giorno furono catturati nella Casa 35 ebrei. Molti altri abitanti della Casa, 14 in tutto, furono presi nel corso dei mesi successivi e ben 6 di loro furono assassinati alle Fosse Ardeatine nel marzo del 1944. Per una sola casa, sia pur grande come quella, fra 90 e cento abitanti, non era certo poco. Intanto, mentre i nazisti salivano le scale delle case lì intorno e bussavano perentori alle porte, tutti si erano svegliati. «All’improvviso la Piazza esplose. Sentimmo ordini in tedesco, grida, imprecazioni», scrive Settimia Spizzichino, l’unica donna superstite della deportazione del 16 ottobre, allora una ragazza di 22 anni che abitava con la famiglia subito lì dietro, a via della Reginella. Voci e grida risuonavano alte dalle finestre degli edifici, gli uni avvisavano i parenti o gli amici nella casa accanto di scappare. «Prendono gli ebrei, prendono tutti», si gridava da ogni parte. Le donne si affacciavano alle finestre degli ultimi piani, mentre già i nazisti entravano nelle case sottostanti. Chi ci riusciva, prendeva le scale facendo finta di niente, come fece la famiglia Fatucci che abitava all’ultimo piano della Casa: dopo aver fatto fuggire i figli maschi dai tetti, i genitori di mezza età e le due figlie adolescenti scesero le scale senza voltarsi indietro. Si era ormai capito che i tedeschi non si limitavano ad arrestare gli uomini in età da lavoro, ma prendevano tutti, proprio tutti, dai vecchi ai neonati. Che cosa ne avrebbero fatto poi, nessuno lo sapeva. Come non sapevano che i tedeschi stavano facendo lo stesso in tutta Roma, che in quello stesso momento ogni edificio della città in cui abitavano ebrei risuonava delle stesse grida e degli stessi passi. I nazisti avevano in mano gli elenchi di tutti gli ebrei di Roma, uno per uno, completi di indirizzo. Avevano diviso la città in 26 zone “operative” e in ognuna di esse si sviluppava contemporaneamente la razzia, che aveva lo scopo di arrestare la maggior parte degli ebrei presenti in quel momento in città, fra italiani e stranieri oltre tredicimila. In realtà ne presero molti di meno, poco più di mille una volta rilasciati i “misti”, un sostanziale fallimento nell’ottica nazista, che il rapporto ufficiale di Kappler attribuisce sia al numero insufficiente degli uomini impegnati nell’azione sia «all’atteggiamento di resistenza passiva, e in alcuni casi individuali di aiuto attivo, della popolazione». Talvolta i tedeschi chiesero al portiere o ad altri inquilini dove potevano trovare quei signori là dell’elenco, alla cui porta avevano invano suonato. E ci fu chi, come il colonnello Guido Terracina, incontrò i nazisti mentre scendeva le scale per scappare e chiese loro in tedesco cosa stesse succedendo, lesse il suo nome sul loro elenco e rispose, con un gran sangue freddo, che quel signore non si vedeva dall’estate passata, che si diceva che fosse sfollato altrove.
E continuò a scendere le scale, dopo aver salutato cortesemente i tedeschi. Ma per farlo bisognava sapere il tedesco e abitare in una casa, come quella dove abitava Terracina, in via Sannio, dove non vivessero solo ebrei. Gli uomini impegnati nell’operazione erano in tutto 365, 5 compagnie dell’esercito e della polizia di sicurezza guidate da un reparto specializzato nella caccia all’ebreo formato da 14 ufficiali e sottufficiali e 30 soldati, comandati dal capitano Theodor Dannecker, uno stretto collaboratore di Eichmann, che avrebbe successivamente cooperato con lui nella deportazione degli ebrei ungheresi. Due o tre giorni prima del 16 ottobre arrivò anche il reparto speciale di Dannecker, che si acquartierò al Collegio Militare, sulla Lungara, dove poi sarebbero stati radunati gli ebrei razziati. Stranamente, non abbiamo nessuna fotografia della razzia del 16 ottobre. Eppure, sappiamo che era usanza dei nazisti prendere immagini delle loro azioni. I nazisti potrebbero aver preferito non documentare questa azione, farla passare sotto silenzio. È forse questo un altro indizio delle esitazioni tedesche di fronte alla deportazione degli ebrei romani proprio «sotto le finestre del papa»? O si tratta di un caso, e le foto c’erano e sono state successivamente smarrite?
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