giovedì 3 ottobre 2013
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​Una parola vi seppellirà. Una parola ben detta, al momento giusto. Nell’era dei talk show ritagliati intorno ai leader, in cui l’immagine è tutto, in cui un’inquadratura dice più di mille ragionamenti, la comunicazione politica sembra in realtà essere arrivata a un bivio: o continua a moltiplicare all’infinito gli spazi televisivi e virtuali dedicati al dibattito "sul" e "dentro" il Palazzo, in un vortice di salotti e arene sempre più uguale a se stesso, o cambia strada e (ri)mette al centro la domanda di senso e di nuovi linguaggi che arriva dall’opinione pubblica.La tesi controcorrente arriva da un piccolo pamphlet intitolato Consenso, scritto da Mario Rodriguez per i tipi di Guerini e Associati. Consulente politico e docente universitario, Rodriguez nel suo libro sostiene prima di tutto che «la politica non può essere ridotta a fenomeno massmediologico: c’era prima e ci sarà dopo l’avvento dei nuovi e vecchi mezzi di comunicazione. Non possiamo ad esempio dimenticarci che la costruzione di identità condivise come erano i partiti è precedente all’arrivo della televisione nelle case. E poi sbaglia chi tende ad assolutizzare il peso dei leader e la forza del mezzo scelto per lanciare le proprie idee. Il cittadino, sia esso telespettatore o navigatore della Rete, ha ancora le chiavi per scegliere e decidere». In questa prospettiva, evidentemente il medium non è tutto e il punto di vista strategico non è quello di chi parla o di chi lancia il messaggio, ma quello di chi lo riceve. Non è una novità da poco per un mondo abituato troppo spesso a guardarsi l’ombelico, attribuendo poteri salvifici una volta alle virtù comunicative dei politici e un’altra ai format televisivi scelti per comunicare.

«Una volta c’erano solo due talk show dedicati alla politica, oggi si rischia un effetto saturazione – osserva il critico televisivo del “Corriere della sera”, Aldo Grasso –. L’impressione è che i dibattiti a cui assistiamo servano solo a rafforzare le idee preesistenti di chi li ascolta, in un circuito vizioso per cui il "basso" trascina con sé "l’alto"». La sindrome dell’autoreferenzialità sembra essersi impadronita sia delle scelte comunicative dei leader politici, che preferiscono parlare esclusivamente ai propri militanti, sia degli autori dei palinsesti tv, perennemente alla ricerca di personalità in grado di "bucare" il video, ad ogni costo. Il risultato? È tutto un turbinio di spin doctor autoproclamatisi sul campo, di guru eletti a tribuni del popolo, di esperti di numeri che sembrano essere gli unici detentori della verità.«Ieri si è detto che se Berlusconi aveva dominato l’ultimo ventennio è stato grazie alla televisione, oggi si dice che se Grillo ha avuto un tale risultato elettorale è stato merito della rete – scrive Rodriguez –. Questa lettura dei fatti sottovaluta, però, il senso delle scelte che compiono le persone e contemporaneamente sopravvaluta il ruolo degli strumenti di comunicazione». Attenzione: il contributo dei media al successo di determinate esperienze politiche è innegabile, ma di più e meglio hanno pesato le chiavi narrative e le ricadute sociali proposte. La metafora del sogno, da una parte, l’incarnazione della rabbia, dall’altra. «Bisogna essere se stessi, non altro. Per questo, più di tutto conta il patrimonio della reputazione», chi ascolta il verbum e crea un significato condiviso a tal punto da spingere all’azione e alla mobilitazione le altre persone.

«I media sono diventati strumento di trasparenza e di promozione» osserva Gianpietro Mazzoleni, che insegna Comunicazione politica all’Università degli Studi di Milano e due anni fa ha dato alle stampe Politica pop (Il Mulino). «Nell’era dell’infotainment, la lotta per la visibilità da parte dei politici resta feroce. Cosa non si fa per un quarto d’ora di celebrità, direbbe Andy Warhol...». Il punto è che non sempre (e non tutti) si è in grado di fare efficacemente la propria parte, quando ci si siede sulle comode poltrone dei programmi di prima o seconda serata. «Gli esperimenti più recenti di talk show politici fanatizzano la partigianeria, dividono il pubblico tra ultras di opposte sponde e non accrescono di nulla il contenuto informativo» attacca Rodriguez. «Sì, ma l’informazione seria è spesso un pretesto per fare spettacolo e i media stessi sono strumenti di potere. Di più: lo stesso personale politico è selezionato per la sua capacità di stare in video più che per le sue competenze reali» risponde Mazzoleni. In definitiva, saprà il nostro Paese trovare un modello proprio di comunicazione politica o prevarrà ancora una volta l’americanizzazione spinta? Come cambierà nei prossimi anni quella che i tecnici chiamano la "campagna elettorale permanente"? È qui che in molti sono pronti a scommettere sulla rivincita della parola. Parola scritta e letta nelle conversazioni in Rete da migliaia di militanti e lettori. Parola condivisa nei forum, nei blog e nelle interazioni virtuali. Parola pronunciata sotto lo sguardo delle telecamere, nei brevi silenzi che seguono all’odissea delle polemiche. «Non può che essere parola detta e ascoltata, frutto di un dialogo e non di un monologo» osserva ancora Rodriguez. «Il valore della parola è indiscutibile – aggiunge Grasso –. Chi è stufo delle solite facce e dei soliti teatrini cerca linguaggi nuovi, freschi e che non siano appesantiti da slogan del passato». Non più comici urlanti, di tutte le salse, né maghi della fiction in doppiopetto: anche la comunicazione politica aspetta con trepidazione l’arrivo della Terza Repubblica.

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