sabato 22 giugno 2019
Popolo, democrazia, libertà: ecco le parole chiave del pensiero del fondatore del Partito popolare, la cui visione rimane sempre lucida e attuale. Un convegno oggi a Caltanissetta
Da sinistra, Alcide De Gasperi, Stefano Cavazzoni e Luigi Sturzo a Napoli nel 1921

Da sinistra, Alcide De Gasperi, Stefano Cavazzoni e Luigi Sturzo a Napoli nel 1921

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L’anno in corso si può considerare con buona ragione tutto sturziano: cento anni fa, il 18 gennaio 1919, don Luigi Sturzo – non ancora cinquantenne, ma con alle spalle già più di vent’anni di attività in campo amministrativo e politico, oltre che nell’ambito della cooperazione cattolica – lanciava a Roma il Partito Popolare Italiano e proclamava il suo appello “ai liberi e forti”. E l’8 agosto 1959 moriva ottantasettenne. Pochi mesi prima, il 24 marzo, alla vigilia delle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea regionale siciliana, sul “Giornale d’Italia” aveva rivolto un altro appello, stavolta ai suoi conterranei, suggerendo loro la strategia per vincere «la battaglia per oggi e per l’avvenire». Rileggere l’appello ai liberi e forti – cioè a quegli italiani «d’alti e forti caratteri », che avrebbero dovuto fare dell’Italia, senza riuscirvi affatto, una «nazione ordinata, ben amministrata, forte, libera e di propria ragione», non condizionata da potentati occulti e da accordi sottobanco, come aveva scritto nelle sue memorie Massimo d’Azeglio all’indomani dell’Unità – e rileggere l’appello ai siciliani, è un esercizio molto simile all’esame di coscienza, da fare con un certo pudore e sentendo affiorare il rossore della vergogna sulle guance. Sono, infatti, entrambi ancora attualissimi, ma più che per la loro innegabile forza ideale, per la loro urgente concretezza sociale e politica, disattesa ormai da troppi decenni, anzi quasi mai presa veramente in seria considerazione.

Per questo, sembra di stamattina l’invito sturziano a «congiungere, nell’amore alla patria, il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo », come leggiamo nell’appello del 1919, dato che – affermerà spesso Sturzo dopo esser tornato dall’esilio – la democrazia è autentica solo quando è “solidale”. E sembrano uscite sul giornale di oggi le osservazioni che quell’ormai anziano prete esperto in sociologia faceva sul “punto principale” della situazione siciliana, come scriveva nel 1959, ossia la «formazione di tecnici, di studiosi, di specializzati»: «costino quel che costino, la Regione, invece di tenere due o tre mila impiegati più o meno senza titolo nei vari dicasteri ed enti che ha il piacere di creare a getto continuo, ne tenga solo mille; ma contribuisca ad avere mille tecnici, capi azienda specializzati, professori eminenti, esperti di prim’ordine ». La lucidità intellettuale e l’acribia morale permettevano a Sturzo di prevedere ciò che si sarebbe poi trasformato da improbabile indizio a rovinosa evidenza, visto il punto in cui ci siamo ridotti (14.000 sono attualmente in Sicilia i dipendenti stabili di una pletorica amministrazione regionale).

Ai suoi occhi, il regionalismo autonomo, che egli aveva prima propugnato come antidoto nei confronti della “mala bestia” dello stata- lismo, rischiava di tradursi – e di tradirsi – in una versione peggiorata dello stesso statalismo, applicato con metodo ancor più asfissiante su scala insulare. Davvero quei suggerimenti restano attuali perché inattuati. Del resto, quello che per i siciliani - cui sessant’anni fa Sturzo si rivolgeva – era «l’avvenire», per noi è l’odierna congiuntura, negativa più che mai e tristemente ipotecata dal detto secondo cui al peggio non c’è mai fine. Eppure, Sturzo, «anche di fronte a una oscura situazione », si professava «un ottimista impenitente », speranzoso nella risurrezione di un corpo sociale ch’egli pur vedeva già a quei tempi pronto per l’obitorio. Per riattingere le ragioni – anche cristianamente motivate – di un tale ottimismo, che non si disgiungeva da un onesto realismo, vale la pena tornare a studiare la lezione socio-politica di Sturzo.

È ciò che si propone il Centro Studi Cammarata oggi a Caltanissetta, con un convegno su “Popolo, democrazia, libertà”, cui intervengono storici della politica, politologi e politici di lungo corso chiamati a rivisitare il pensiero di Sturzo a partire dai termini messi in sequenza nel titolo, ovvero le parole-chiave del lessico sturziano che si può ricavare dal discorso sui “Problemi della vita nazionale dei cattolici italiani” pronunciato nel 1905 dal pro-sindaco di Caltagirone. Non si vuole però recuperare l’etimo di quelle parole sorgivamente politiche, tante e tali sono le metamorfosi culturali che ci separano dai tempi in cui cominciarono a essere usate. Per esempio, considerare l’etimologia greca di “democrazia” può portarci semplicisticamente a intendere “potere del popolo” e, difatti, ci sono dei movimenti che oggi si propongono di ridare “potere al popolo” per realizzare una “democrazia reale”.

L’obiettivo di una vera democrazia è pienamente condivisibile. Ma non è chiaro cosa sia il popolo in una prospettiva del genere: come ha insegnato Sturzo, dal suo punto di vista pluralmente classista, il popolo non dovrebbe mai ridursi a una sola parte, ma includere sempre tutti. Per questo egli preferiva qualificare la democrazia con aggettivi che ne potevano enfatizzare la portata dialogica. Una concezione simile, ispirata anch’essa da una visione cristiana del mondo, ha mostrato di avere papa Francesco in alcune pagine della sua esortazione apostolica Evangelii gaudium e della sua enciclica Laudato si’, dove afferma il principio secondo cui il tutto è maggiore non soltanto delle singole parti che lo costituiscono ma anche della loro somma, quasi a dire che occorre apprezzarne la sovreccedenza qualitativa più che quantitativa.

Anche al popolo occorre riconoscere una tale sovreccedenza qualitativa, in quanto è una realtà “poliedrica”, come ama dire il papa ricorrendo a un’immagine cui, metaforicamente, la sociologia più recente associa proprio il concetto di coesione sociale. Sturzo non ne parlava, ma certamente avrebbe condiviso la convinzione di Francesco circa la capacità del poliedro di tenere insieme «il meglio di ciascuno ». Il suo popolarismo, in fondo, si distingueva per questo dal populismo, ch’egli definiva piuttosto un «atteggiamento politico parlaiuolo e follaiuolo».

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