venerdì 3 maggio 2013
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In un secolo ha percorso la Penisola in su e in giù, in lungo e in largo, fin nei più piccoli e sperduti paesini. Ha fatto sfilare tra Alpi e Appennini storie eroiche e qualche tragedia, ha contagiato entusiasmi, rabbie, stupori. Ha creato occasioni e prodotto incontri. Ha interessato la politica e la cultura, l’economia e lo spettacolo, la religione, l’arte... Ci rappresenta insomma nel mondo e funziona da specchio efficace anche ai nostri occhi. No, il Giro non ci prende in giro.Ma, se così è, ha dunque un senso che uno storico (benché non accademico) quale Mimmo Franzinelli ne affronti la storia «dai pionieri agli anni d’oro», come spicca il sottotitolo su copertina ovviamente rosa del suo recente saggio Il Giro d’Italia(Feltrinelli, pp. 344, euro 20). In effetti il libro – che si avvale per la prima volta dell’archivio di Vincenzo Torriani, lo storico patron del Giro, il quale a sua volta aveva ereditato i materiali del predecessore Armando Cougnet – sembra accreditare la tesi che la celeberrima corsa a tappe disegna in molti punti il carattere stesso del nostro popolo, i suoi vezzi e i suoi tic, le sue risorse e gli annosi problemi.Il Giro specchio degli italiani. Franzinelli, lei ci si vede?«In effetti, è credibile usare la bici per andare a ruota lungo la storia del nostro Paese. Attraverso il pedale si possono vedere una serie di snodi del passato che non siamo ancora riusciti a superare. Faccio un esempio: il rapporto tra Nord e Sud dello Stivale».Esiste dunque una «questione meridionale» pure nel ciclismo?«I primi Giri si sono dimostrati un disastro appena giunti a sud di Roma, a causa dello stato delle strade. La corsa si interrompeva più volte, gli atleti sbagliavano itinerario... Impressionante quanto, a cinquant’anni da Garibaldi (il primo Giro è del 1909), l’Italia funzionasse ancora a due velocità sotto l’aspetto della mobilità: non per nulla la bicicletta era assai scarsamente rappresentata nel Sud e bassissimo era il numero dei ciclisti meridionali. Come le camicie rosse garibaldine, i corridori che partirono da Milano alla conquista dell’Italia erano quasi tutti settentrionali».«Il paesaggio ha un sapore orientale: ulivi scheletriti, aloe, qualche palma. E polvere, polvere ovunque»... Sembra una descrizione della Libia, invece è la cronaca di un inviato al seguito del primo Giro: sta parlando del basso Lazio!«È vero. Anche se nasce nell’anno del manifesto del futurismo e del Nobel a Guglielmo Marconi, è un’Italia ancora pre-moderna quella che il Giro attraversa. Debole sul piano delle infrastrutture, diseguale; l’auto vi è strumento d’élite assoluta, le bici sono appena 600.000...».Ma la bicicletta ha contribuito a unificare la Penisola?«I fatti dicono che il Giro è stata l’unica manifestazione sportiva autenticamente "nazionale" del primo cinquantennio dell’Unità; persino il calcio si sviluppava su campionati regionali. La bici ha offerto un senso d’identità nazionale, lasciando però al tempo stesso libera di esprimersi l’Italia delle fazioni e dei campanili, che poteva identificarsi nei vari campioni contrapposti. I due aspetti non sono necessariamente in contraddizione: c’è il volto fazioso dell’italiano, infatti, ma anche il riconoscimento di una medesima identità».E pure l’italicissima arte di «arrangiarsi»! Gustosi gli episodi dei corridori che tentano di imbrogliare i rari controlli prendendo il treno, dei tifosi che prendono a botte i ciclisti «avversari», dei chiodi sparsi sulle strade... Al Giro del 1930 Binda viene pagato per non correre, sennò avrebbe ammazzato la competizione: c’è qualcosa di più «italiano»?«Difatti fin dall’inizio il successo del Giro è straordinario. Già nell’edizione del 1911 la Fiat coglie l’occasione pubblicitaria per sponsorizzare una squadra e sempre quell’anno la corsa inizia e finisce a Roma per onorare il 50° dell’Unità: vuol dire che la manifestazione "parlava" alla gente». Però non piacque ai fascisti... Strano, visto l’interesse di Mussolini per tutto ciò che poteva giovare alla sua popolarità.«È vero, maglie rosa e camicie nere si guardarono con riserve mentali che non riuscirono mai a coincidere. Nel ciclismo il fascismo non passa: Bartali addirittura rifiutò la tessera del Partito. D’altra parte la destra aveva intenti modernisti legati alle macchine, ai motori, alla velocità rumorosa. Mussolini si dava l’immagine di grande sportivo e riceveva a Palazzo Venezia atleti di ogni genere, ma mai ciclisti. Forse anche perché rappresentavano un mondo che non si lasciava addomesticare facilmente, come le masse radunate negli stadi. O forse perché il corridore è sporco, sudato, mentre nel fascismo l’unico individuo ammissibile era un vincente solare, sorridente, che non mostrava la fatica».Tuttavia il Giro mostra pure il dualismo storico degli italiani: fascisti e comunisti, destra e sinistra, cattolici e laici, Bartali e Coppi... tutt’al più con un «terzo incomodo» come Fiorenzo Magni. Il solito «bipolarismo imperfetto»?Sì, è così. Tuttavia vorrei rimarcare che nel mio libro sfato un mito: quello di Coppi comunista. Da alcuni documenti, infatti, ho trovato che anche il campionissimo votava Dc. Certo la condotta personale lo ha fatto percepire come l’irrequieto e il "laico", ma in realtà era cattolico».Come il «patron» del Giro, Torriani.«L’epoca di Vincenzo Torriani è la reinvenzione del Giro subito dopo la seconda guerra mondiale. Già internato di guerra in Svizzera (il suo vicino di branda era Amintore Fanfani), Torriani è stato un grande modernizzatore non privo di una dimensione utopica. Voleva che la corsa avesse, oltre a un valore nazionale, anche un’ampiezza europea: tentò più volte di creare il Giro Europa in un continente ancora chiuso dalla Cortina di ferro e vi riuscì molto parzialmente a causa dei condizionamenti politici. Ma nello stesso tempo pensava al ciclismo come un veicolo per collaborare alla ricostruzione morale dell’Italia e di miglioramento anche sociale delle classi povere, per esempio a favore dei gregari: che all’epoca facevano davvero la fame».Ma il ciclismo è sempre stato legato agli sponsor, si può forse dire che la pubblicità è entrata nello sport in bicicletta...«Distinguerei però due momenti. Agli esordi del secolo gli sponsor sono di settore: le fabbriche di bici o di pneumatici, il giornale dello sport... Ma solo dopo la seconda guerra mondiale la grande industria entra, anzi inventa "la carovana del Giro": uno strumento itinerante incredibile per far penetrare nuovi prodotti nel mercato enorme dei piccoli paesi d’Italia. Con grave scandalo dei "puristi", che a lungo vietarono di portare il Giro per esempio a Venezia, per non "sporcare" la sacralità di piazza San Marco con gli slogan pubblicitari...».D’altra parte il Giro svolgeva anche il ruolo di una sorta di «X Factor» nomade in cui chiunque poteva mettersi in gioco per trovare successo, chissà, forse per cambiare definitivamente vita...«All’epoca qualche spazio c’era, pensiamo al caso degli "isolati", ovvero i corridori senza squadra per i quali c’era anche una classifica a parte: era l’individuo che con un po’ di fortuna e tanta tanta fatica poteva pensare di farcela. Non vorrei che ora si tornasse a quei tempi, visto che oggi le squadre chiudono per mancanza di finanziamenti».E fors’anche per gli scandali del doping, che allontanano i tifosi. Anche in questo il Giro è specchio di una decadenza civile?«In realtà i beveroni esistono almeno dagli anni Cinquanta (ne faceva una satira Ugo Tognazzi negli sketch di Giro a Segno, cabaret tv con Raimondo Vianello), ma allora erano un intruglio artigianale».Il prossimo Giro, come lo vorrebbe?«Vorrei che avesse un cuore antico, consapevole di essere portatore di una storia più che centenaria e di valori che vanno rispolverati e vissuti. Abbiamo bisogno della dignità sportiva, umana e culturale che negli anni d’oro il Giro portava in giro».
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