giovedì 20 settembre 2012
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Ci sono molti modi di leggere la crisi economica e politica che sta facendo tremare la fragile costruzione europea fino a farci dubitare della sua sopravvivenza. L’ultimo, ripreso anche sulla stampa italiana, propone una lettura, collaterale rispetto alle consuete valutazioni tecniche della crisi, ma di grande rilievo. La vera difficoltà per l’Europa di trasformarsi in una Unione economicamente funzionante sarebbe, secondo la sbrigativa analisi del direttore del The Globalist Stephan Richter, da attribuire alla tradizione cattolica lassista nei confronti dei "peccati fiscali" e alla sua scarsa propensione verso lo spirito del capitalismo, le sue dinamiche e le sue regole. Non c’è bisogno di pensare a Weber per rendersi conto che la polemica anticattolica, ripresa dal cattolico Richter, si ripropone secondo schemi consueti, già confutati per quanto riguarda l’estraneità del cattolicesimo alle logiche moderne del capitalismo (ben regolato). Nonostante ciò, è certamente utile prestare attenzione alle critiche avanzate dalle culture protestanti verso quella cattolica. La loro consolidata diffidenza verso i Paesi cattolici e quella che giudicano la loro irresponsabile disaffezione verso la dimensione pubblica, ha argomenti difficilmente confutabili. Chi può negare il valore del rispetto delle libertà individuali e politiche coniugato con un forte senso di responsabilità verso la cosa pubblica di cui i Paesi nordici possono fare vanto? Chi non preferirebbe il tasso di onestà della classe politica di questi Paesi di fronte all’umiliante costo della corruzione politica del nostro Paese o l’efficienza della loro burocrazia di fronte alla farraginosità della nostra? Quale di questi Paesi ha tollerato per tanti anni un’evasione fiscale così imponente come da noi? L’evidenza di queste constatazioni, pur nell’impossibilità di attribuirne direttamente al cattolicesimo la responsabilità, richiede un attento esame di coscienza. Se la politica dei Paesi cattolici ne tenesse conto, inizierebbe da qui il proprio riscatto, riuscendo a dar dimostrazione di maggior coerenza rispetto ai temi della libertà e responsabilità personali, centrali anche per il cattolicesimo. La questione, tuttavia, è ben più ampia di quella delineata. Non è possibile, infatti, esaurire la diversità cattolicesimo/protestantesimo nel pur grande tema della libertà (e della conseguente maggiore responsabilità individuale) che il secondo avrebbe introdotto rispetto al quadro di dipendenza delle coscienze tipicamente cattolico. E neppure imputare ogni male alla presunta corrività del cattolicesimo rispetto al peccato. La lettura del protestantesimo come faro di civiltà senza ombre rispetto al compromissorio oscurantismo cattolico è per lo meno riduttivistica. Preso atto delle innegabili debolezze delle politiche dei Paesi cattolici, è necessario esaminare le contraddizioni del mondo protestante. Se la familiarità con il peccato e con la possibilità del perdono possono contribuire al lassismo in un cattolicesimo mal inteso, è indispensabile riflettere sulle conseguenze drammatiche dell’assoluto pessimismo antropologico luterano e protestante in genere. Questo, e l’individualismo radicale che ne è il presupposto teologico e filosofico, infatti, sono all’origine dell’etica relativistica che, continuamente rimodellando i propri contenuti sulla fluidità del contesto storico-sociale, rischia di svuotarsi fino all’irrilevanza e di dissolversi nel confronto con le etiche forti emergenti.
Un simile relativismo, a sua volta, finisce per vanificare progressivamente perfino quell’etica della responsabilità che, da Weber in poi, è additata come il presupposto di ogni politica efficace. L’odierna deriva finanziaristica dell’economia trova giustificazione per le sue (non) regole nell’estremo individualismo autoreferenziale del cui trionfo oggi siamo testimoni. Le sue lontane origini affondano in un’antropologia della completa malvagità, in rapporto a Dio, da cui l’uomo, ricava, paradossalmente, un’assoluta, individualistica libertà nel "mondo della carne".
Invece di agitare lo spread come l’ultimo confine della pubblica immoralità sarebbe più opportuna una riflessione sui modi per disattivare la deriva potenzialmente autodistruttiva di tale lettura della libertà. L’antropologia più mite e chiaroscurata del cattolicesimo, con la sua esperienza del peccato ma con la certezza del bene che appartiene ineliminabilmente all’uomo, pur con le debolezze della sua politica è in grado di costruire società dai tessuti più saldi, più accoglienti e omogenei. Qui, per esempio, la famiglia ha ancora un senso e svolge una funzione non solo educativa, di cura, ma, anche (come in Italia è stato e ancora è) di potente ammortizzatore economico e sociale. Invece di contrapporre cattolici e protestanti, occorrerebbe coniugare i loro versanti migliori: il forte senso della cosa pubblica dei Paesi protestanti e la loro capacità di esaltare le capacità individuali con la capacità di accoglienza del solidarismo cattolico e l’attitudine a creare strutture di relazione, in primis quella familiare, capaci di fornire stabilità e legami alla società. Abbandonare l’individualismo autoreferenziale e un certo opaco lassismo darebbe all’Europa possibilità in più di consolidarsi anziché di dissolversi.
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