martedì 15 novembre 2016
È la forma di narrazione più adatta al nostro tempo perché non intende abbracciare un’intera vita ma si limita a un punto di svolta decisivo. L’esempio (riuscito) di Lisa Ginzburg
Perché oggi il racconto «funziona» meglio del romanzo
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Nonostante tre o quattro decenni di sovrapproduzione romanzesca, mi sembra che in Italia non sappiamo più che cos’è un romanzo. Basterebbe dare un’occhiata ai libri che hanno vinto in questi ultimi anni il premio Strega per averne la prova. Non si tratta neppure di onesti tentativi sperimentali (il romanzo è un genere sperimentale da quando è nato, quattro secoli fa) ma di equivoci di genere, racconti annacquati o insipienza mascherata più o meno bene. Una certa responsabilità ce l’hanno anche gli editori, che contribuiscono a trasformare il romanzo da genere letterario a categoria merceologica. C’è però, per fortuna, qualcuno che si dedica al racconto. Il racconto è una forma ideale che non si trasforma facilmente in merce, perché il pubblico ne diffida e gli editori anche. Non ha bisogno di complesse architetture e può permettersi di evitare l’obbligo commerciale di superare le cento pagine. Un racconto può cominciare e finire quando vuole. Può raggiungere la perfezione fra le quattro e le venti pagine. È in un certo senso a metà strada fra poesia e romanzo. Lavora bene anche con poca materia. Si legge in una sola seduta, non più di una mezzora o di un’ora. Il romanzo tende a narrare il destino di un’intera vita. Il racconto evita l’enormità di tali ambizioni, si limita a un segmento, a un episodio, a un punto di svolta decisivo, all’inizio e alla fine di qualcosa, non di tutto. Eppure, dentro quei limiti, può suggerire tutto.

Avendo pubblicato qualche anno fa un libro intitolato Non incoraggiate il romanzo, potrei essere sospettato di ossessiva fedeltà a una tesi, a una predilezione troppo conseguenziale. Invece questa piccola apologia della narrazione breve mi viene dalla lettura dei cinque racconti che Lisa Ginzburg ha infilato in un piccolo libro eccezionalmente riuscito, Spietati i mansueti (Gaffi, pagine 116, euro 15,00). Leggendolo, non ho avuto un momento di dubbio né una sensazione di vuoto. Se non sembrasse enfatico, direi che in questi racconti “c’è la vita attuale come è”, senza manierismi né artificiali additivi. Tutto viene raccontato con una precisione ritmica e una chiaroveggenza realistica che sorprendono. Per quello che ne so, nessun romanzo italiano pubblicato in questi ultimi dieci anni è riuscito a rappresentare con altrettanta lucidità e “saggezza” morale il nostro più comune modo di vivere. Dov’è il metodo? Dov’è il segreto? Il bello è che non sembrano esserci né segreti né metodi, ma solo un puro e semplice istinto narrativo, una passione innata per il modo, difficilmente percepibile, in cui davvero avvengono le cose della vita, anche quando sembra non avvenire quasi niente. È vero che in un racconto il precedente decisivo è lo stupro subito dalla giovane protagonista nel corso di una rapina, e che in un altro al centro di tutto c’è un bambino autistico: cose che non succedono spesso né a tutti. Ma anche questo, se non può essere definito “normale”, è raccontato e dunque avviene in un regime di normalità, in un quotidiano alternarsi di atti, umori, pensieri che sono, potrebbero essere, di tutti. Non si ha mai il minimo dubbio che la cosa raccontata sia avvenuta esattamente così e che così, e non altrimenti, doveva avvenire. Naturalmente il problema e la soluzione sono nel linguaggio: nel tono “atonale”, nella perfetta velocità del ritmo, nella lingua adeguatamente fedele ai fatti, nella combinazione e simultaneità fra ciò che “fa trama” e ciò che “fa situazione”. Per esempio, mentre in un racconto sta per esplodere una verità inaspettata, ci viene detto che il viale è «punteggiato di casette monopiano e geometriche siepi di bosso» mentre «ragazze “in tiro” e molto truccate si affrettano verso la stazione della Rer – vanno a Parigi in cerca della vita che non trovano lì».

Sembra un’incongrua divagazione e invece è il dettaglio che “realizza la realtà”, come la curva di due mani in un quadro di Vermeer. Per il vero narratore il problema non è lo stile, è la visione della sequenza fattuale che viene percepita e detta senza esitazioni e come senza intenzione, per ubbidienza immediata all’oggetto narrabile. Questi racconti, nell’apparente calma, sono anche impazienti: vogliono arrivare presto, eppure senza forzature, alla verità. Quale? Soprattutto alla verità sull’amore e i diversi tipi di amore che si mescolano o entrano in conflitto. Sulla varietà delle circostanze in cui si realizzano: cioè nascono, poi inavvertitamente si modificano e infine lentamente o all’improvviso, date le circostanze, finiscono. Sono racconti sulle circostanze dell’amore e sulle possibilità reali che queste circostanze offrono. L’amore dunque, oltre che un sentimento, più che un sentimento, è l’insieme delle sue circostanze. La scrittrice le osserva, le registra e le studia con partecipazione, curiosità e distacco. Con mano sicura, veloce e leggera, il quieto fluire della vita nel tempo (un tempo scomposto e ricomposto in poche sequenze incrociate) viene illuminato, emerge nei suoi minimi fatti e nelle sue ineluttabili conseguenze. Alla fine c’è una certa tristezza, accompagnata da un senso di pace.

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