lunedì 17 agosto 2009
Era tanto orgoglioso delle sue imprese che ne conservava l’elenco in un cofanetto apposito. Salsa, presidente Cai: «I suoi itinerari meritano tutta la nostra attenzione».
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È il Papa del Novecento (e probabilmente della storia intera) che più si sia avvici­nato al cielo sulle proprie gambe. Eppure Pio XI è l’unico Pontefice del secolo scorso per il quale non si parli di beatificazione... Eh, a volte la storia scherza persino con i santi. Ma certo non potrà rubare ad Achille Ratti un prima­to che gli appartiene prima anco­ra di quello petrino: l’essere stato il primo (e unico?) «Papa alpini­sta». Lo scrisse Carlo Emilio Gad­da nel suo Pasticciaccio e lo riba­disce ora Alberto Maria Careggio, vescovo di Ventimiglia-Sanremo eppure grande amatore delle montagne: «La qualifica spetta, senza dubbio, a chi aveva la stof­fa dei grandi scalatori italiani» della sua epoca.Il giudizio viene emesso a prefazione di un libro interamente dedicato proprio ad Achille Ratti, il prete alpinista che diventò Papa (Bellavite editore, pp. 264, euro 25), ricerca compi­lata da Domenico Flavio Ronzo­ni: uno storico brianzolo e inse­guitore delle vette come il Ponte­fice desiano. Uomo di scrivania e di biblioteca (fu prefetto dell’Am­brosiana dal 1907 e della Vaticana dal 1914), monsignor Ratti ci sa­peva appunto fare anche con scarponi e piccozza: lo dimostra l’«elenco delle salite ed escursio­ni » che Sua Santità vergò di pro­pria mano e che il libro ora ripro­duce. Tra l’agosto 1885 e l’ottobre 1913, ovvero prima del suo tra­sferimento prima a Roma e poi come diplomatico vaticano in Polonia (tornò a Milano come ar­civescovo nel 1921, ma solo per 5 mesi prima di diventare Papa), il poliedrico ecclesiastico poté col­lezionare una bella quantità di imprese alpine, sia sui monti «di casa» (la Grigna sopra Lecco, il Legnone presso Colico), sia su massicci rinomati come il Gran Paradiso, la Marmolada, il Rosa, il Cervino, il Bianco.Scelte che al presidente del Club Alpino Italia­no Annibale Salsa permettono, nella presentazione del volume, di definire tecnicamente l’antico socio Ratti (iscritto dal 1888 e più tardi membro del Consiglio diret­tivo milanese) un «occidentali­sta », ovvero uno scalatore «attrat­to più dai terreni misti di neve, ghiaccio e roccia che dai virtuosi­smi tecnici del dolomitismo»; pur se le difficoltà di certi suoi itine­rari «meritano tutta la dovuta at­tenzione da parte degli ambienti alpinistici». Non per nulla, il cur­riculum del prelato annovera sot­to l’anno 1889 la prima salita ita­liana alla Punta Dufour sulla pa­rete est del Rosa e nel 1890 un’an­cor più prestigiosa apertura sulla re­gina delle cime europee, il Bianco, lungo la via a tutt’oggi nota co­me «Ratti-Grassel­li » (dal nome del­l’inseparabile compagno di cor­data don Luigi Grasselli) o più sbrigativamente «via del Papa». E in Val d’Aosta c’è an­che una Punta Ratti, vetta di 2840 metri che ri­corda il supremo scarpinatore; che è pure l’unico Papa cui oggi risulti intitolato un rifugio alpino, in Val Venosta. Né da sottovaluta­re sono gli itinerari pontifici che oggi diremmo di trekking. Nel 1892, per esempio, il futuro Pio XI compie un lungo giro da Pine­rolo a Milano attraverso una quantità di passi e cime, passan­do anche una notte all’addiaccio, così come nel 1900 si dedicherà all’escursionismo notturno sul Vesuvio. Infine nell’ottobre 1913 resta ben 4 giorni da solo nel bi­vacco sulla vetta della Grigna: è il suo «addio ai monti», visto che in seguito il diario non annota più mete. Ma il fatto che l’ecclesiasti­co segni con scrupolo tutte le sue «imprese», conservandone l’elen­co tra le cose più personali in un cofanetto foderato di stoffa rossa, la dice lunga sulla considerazio­ne in cui doveva tenere l’attività alpinistica; anche quando – come scrisse l’abate valdostano Joseph- Marie Henry – aveva ormai già compiuto «la più alta ascensione possibile in questo mondo: quel­la al soglio pontificio!». Tra facili e impegnative, Ronzoni valuta in un centinaio le gite montane del Papa, sempre accuratamente preparate sia sulla carta (con lo studio degli itinerari e delle rela­zioni di precedenti salite), sia sul terreno. «L’alpinismo vero non è già cosa da scavezzacolli», repu­tava don Ratti; e in effetti la sua informata prudenza salvò una volta la vita di un giovane monta­naro che la sua cordata aveva preso come guida sul Gran Para­diso ma che aveva affrontato in modo imprudente una cornice nevosa: per fortuna il sacerdote brianzolo aveva letto delle diffi­coltà del passaggio e provvide ad assicurare per bene la corda, che in effetti bloccò poi la caduta del­l’imprudente. Quanto il sacerdo­te prendesse sul serio le sue sca­late (passione peraltro di fami­glia, condivisa con due fratelli e un nipote, di cui Ron­zoni ha ritrovato le let­tere «alpinistiche») è indicato pure dall’atti­vità pubblicistica de­dicata alla materia, con relazioni e articoli pubblicati sulla rivista del Cai e riuniti dopo la sua elezione a capo della Chiesa in un raro volume del 1923, che ora Ronzoni riproduce fotograficamente. In quello stesso anno in più Papa Ratti fece in­serire nel Rituale la formula per benedire corda e piccozze e no­minò san Bernardo patrono di montanari e alpinisti, con una lettera apostolica in cui decretava addirittura che le scalate – «con l’esclusione, s’intende, di ogni ir­ragionevole rischio» – sono lo sport «più corroborante per la sa­nità morale e per la salute fisica». E se l’affermazione probabilmen­te non cade sotto la tutela dell’in­fallibilità pontificia, tuttavia è pur sempre parola di Papa.
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