martedì 16 aprile 2013
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​Come sarebbe andato a finire il Congresso filosofico nazionale del 1926 non era forse difficile da prevedere. Al di là dell’intervento della pubblica forza, a saltare all’occhio è infatti l’inconciliabile diversità dei due principali contendenti: da una parte il fondatore dell’Università Cattolica, padre Agostino Gemelli, i cui rapporti con la Società filosofica italiana sono da subito turbolenti; dall’altra il pensatore Piero Martinetti, incaricato di presiedere il convegno in piena libertà, d’accordo, ma con l’espresso invito a coinvolgere i docenti dell’ateneo di padre Gemelli. La tensione inizia a salire non appena il drappello dei neoscolastici si accorge che fra i relatori figura lo scomunicato Ernesto Buonaiuti, uno dei campioni del modernismo nostrano. Proteste, scompiglio, chiusura anticipata dei lavori per disposizione della Prefettura. Martinetti, com’è nel suo stile, non recede. Allo stesso modo, cinque anni più tardi, sarà uno dei pochi docenti universitari a non prestare il giuramento di fedeltà al regime fascista.Il Congresso del 1926 e il gran rifiuto del 1931 sono probabilmente gli episodi più noti nella vicenda biografica del «Socrate cristiano», come Martinetti è stato spesso definito. Nato nel 1872 a Pont-Canavese e morto nel 1943 a Cuorgnè, la località in provincia di Torino dove si era da tempo ritirato, è stato fra i protagonisti di una stagione di accentuata inquietudine spirituale, la cui eco non si è ancora spenta. Anzi, quanto più si frequentano i testi e le tematiche del primo Novecento, tanto più ci si rende conto che gli argomenti a favore del cristianesimo e le polemiche nei confronti della Chiesa obbediscono ancora oggi a uno schema risalente ormai a un secolo fa. La conferma è fornita dal ritorno di uno dei libri più importanti e controversi di Martinetti, quel Gesù Cristo e il cristianesimo (Castelvecchi, pagine 574, euro 25,00) pubblicato in forma privata nel 1934, immediatamente posto sotto sequestro dal fascismo e poi messo all’Indice dalla Chiesa. Un saggio che di sicuro restituisce con estrema chiarezza la temperie dell’epoca, ma che avrebbe avuto bisogno di una contestualizzazione un po’ più articolata rispetto alle pur corrette informazioni riportate in copertina.Come sottolineato più volte da Norberto Bobbio, Martinetti fu anzitutto un filosofo morale. Il suo capolavoro è il trattato sulla Libertà, apparso originariamente nel 1928 e riproposto nel 2004 da Aragno con un ampio contributo di Amedeo Vigorelli. Rielaborando in forma originale le posizioni dell’idealismo kantiano, Martinetti propone di risolvere l’istanza metafisica nell’azione morale, lungo una linea già espressa nei celebri “Breviari” (rispettivamente “spirituale” e “di metafisica”) risalenti al cruciale 1926. Non diversamente da quanto era accaduto per Kant stesso, il cristianesimo è per Martinetti un riferimento irrinunciabile, al quale però il filosofo piemontese guarda da una prospettiva influenzata in parte dalle sue personali convinzioni e in parte dal dibattito esegetico a lui contemporaneo. Sono gli elementi che si ritrovano in Gesù Cristo e il cristianesimo e nelle altre due opere che, insieme con questa, costituiscono una sorta di trilogia: Ragione e fede (1934) e Il Vangelo (1936: l’edizione più recente è quella del melangolo, datata 1998). Quest’ultimo libro, in particolare, è il tentativo di ricostruire un racconto il più possibile coerente attraverso un’antologia di brani tratti dai Sinottici, che di fatto rappresentano le sole testimonianze alle quali Martinetti riconosca affidabilità documentaria. Tutti gli altri testi del Nuovo Testamento sono quindi esclusi dalla trattazione. Quando, come capita di frequente in Gesù Cristo e il cristianesimo, Martinetti si riferisce alle lettere di Paolo, lo fa sempre per contestarne la pretesa di sistemazione dogmatica ai danni dell’originaria semplicità dell’insegnamento del Nazareno. Il quale, per il filosofo torinese, non si sarebbe proclamato Messia, essendo piuttosto «l’ultimo e il più grande dei profeti ebrei», come si legge nelle prime righe del saggio del ’34. Il messaggio cristiano si riduce così all’annuncio del Regno dei cieli e al conseguente precetto della carità, in una dimensione di povertà spirituale che prima Paolo e poi le varie Chiese avrebbero tradito.Non c’è da stupirsi che, date queste premesse, le critiche più severe siano rivolte proprio al cattolicesimo, al quale Martinetti contrappone la necessità di una «chiesa invisibile» che affiorerebbe a tratti anche nel desolato panorama della modernità, per esempio attraverso il radicalismo evangelico di Tolstoj. Il quadro d’insieme, come si vede, non è molto dissimile dai ragionamenti di molta pubblicistica corrente. A riproporsi identico è, nella fattispecie, il paradosso per cui la ricerca del «Gesù storico» si accompagna sempre alla mitizzazione di un «Cristo spirituale» sottratto, in ultima analisi, al mistero dell’Incarnazione. Tolta la quale il cristianesimo si trova per l’appunto confinato nell’ambito dell’etica. Con esiti esaltanti e sublimi, non si discute, ma comunque inadeguati a comprendere la complessità del reale e della stessa esperienza di fede.
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