martedì 27 marzo 2012
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​«Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Ma non ho le prove». Così scriveva Pier Paolo Pasolini il 14 novembre 1974, a proposito della strage di piazza Fontana. «Oggi invece abbiamo le prove, possiamo fare i nomi dei responsabili, ma la giustizia è ormai chiusa». Così ragiona il regista Marco Tullio Giordana. E così lo racconta il suo bel film, Il romanzo di una strage, che da quello scritto di Pasolini mutua il titolo. Romanzo, dunque, e non documentario, anche se personaggi, intrecci, ricostruzioni offrono davvero quelle prove che Pasolini non aveva. Tentando anche di sciogliere quell’intreccio di "verità" sovrapposte che hanno caratterizzato inchieste lunghe quaranta anni. Due frasi che sintetizzano la vicenda della "madre di tutte le stragi", il "giorno dell’innocenza perduta" del Paese. «Giustizia chiusa» come si legge nei titoli di coda del film. Non solo per la strage del 12 dicembre 1969, ma anche per l’omicidio del commissario Calabresi e di Aldo Moro, personaggi centrali (i giusti) della trama del film, ma anche della trama reale. Chiusa e non riapribile.Neofascisti sicuramente responsabili di quella bomba e di quelle che l’avevano preceduta. Ma riconosciuti fuori tempo massimo, in quanto precedentemente assolti nei tre gradi di giudizio. Verità storica. Bombe per spingere la politica verso una svolta autoritaria. Non colpo di Stato alla greca, ma leggi speciali. Ne ha immediata e tremenda contezza Aldo Moro, allora ministro degli Esteri, riuscendo a convincere il capo dello Stato, Giuseppe Saragat a non imboccare questa strada. Quella che il "nero" Franco Freda nel film sintetizza nella frase «ci verranno tutti dietro».Il colloquio tra Moro e Saragat è, evidentemente, una ricostruzione ipotetica, ma basta leggere quanto lo statista Dc scrive dalla "prigione del popolo" delle Br per comprendere che le sue idee sulla strage erano chiarissime. «La pista era vistosamente nera, come si è poi rapidamente conosciuto. Fino a questo momento non è stato compiutamente definito il ruolo (preminente) del Sid (il servizio segreto militare, <+corsivo>ndr<+tondo>) e quello (pur esistente) delle forze di Polizia. Ma che questa implicazione ci sia non c’è dubbio». E sempre nella stesso memoriale Moro ne spiega anche il perché: «La cosiddetta strategia della tensione ebbe la finalità di rimettere l’Italia nei binari della "normalità" dopo le vicende del ’68 e il cosiddetto autunno caldo». Con l’inquietante ruolo di Paesi stranieri. Sembra proprio di leggere parti del copione di Fabrizio Gifuni, il Moro del film.Una ricostruzione, quella di Giordana e degli sceneggiatori, precisa e documentata. Depistaggi, spostamenti dei processi, bombe anarchiche "potenziate" da quelle neofasciste (è la tesi del doppio ordigno in piazza Fontana), prove scomparse. Per bloccare le indagini quando imboccano la strada giusta. Quella che vorrebbe prendere Calabresi, malgrado i consigli dei suoi superiori, poco prima di venire ucciso. Colpito per quello che stava scoprendo o per la morte dell’anarchico Pinelli? Il film sembra propendere per la prima ipotesi, confermata anche dall’eccessiva fretta, denunciata anche dal figlio Mario, con cui affronta il linciaggio di Calabresi da parte di Lotta continua, movimento del quale facevano parte Sofri, Pietrostefani e Bompressi, condannati definitivamente per l’omicidio. Tesi un po’ partigiana. Piuttosto non è da escludere che il loro progetto assassino fosse ben noto (Lotta continua era sicuramente infiltrata), ma nessuno intervenne per bloccarlo. E il cerchio si chiuderebbe. Visto che anche il progetto di piazza Fontana era ben noto. Ma nessuno lo fermò. Pensando di utilizzare "neri" e "rossi".
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