venerdì 20 dicembre 2013
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Philomena, la potenza disarmante del perdono. Ci sono film che lasciano il cuore in gola. E non per la potenza della storia, per la grandiosità degli attori (una coppia indimenticabile, Judi Dench e Steve Coogan) o per la forza del tema (una maternità strappata). Ci sono film che lasciano il cuore in gola perché sanno cogliere, pur eccedendo le intenzioni e le motivazioni degli autori, la grandezza dell’animo umano che lotta, senza tenere conto delle ferite, e che è capace di vivere in pienezza il perdono, senza condizionamenti esterni o blande accettazioni. Con Philomena (migliore sceneggiatura, firmata dallo stesso Coogan e da Jeff Pope, all’ultima Mostra del cinema di Venezia, oltre che Premio Signis e Premio Nazareno Taddei) Lucky Red porta in sala un film forte, inquietante, profondo che gioca su due binari sempre paralleli: il senso del perdono e la durezza di cuore di alcuni rappresentanti di Dio. Portando invece alla luce una realtà: la fede, anche se potrebbe essere veicolata da suore più concetrate sul condannare l’errore che sul senso di pietà, si fa strada nel cuore di Philomena perché è davvero un incontro vero con quel Dio che non lascia indifferente l’uomo.Tratto da The Lost Child of Philomena Lee, il film racconta la storia di Philomena, una ragazza irlandese, che negli anni ’50, è abbandonata dalla famiglia a causa di una gravidanza inattesa. Il convento è il posto che accoglie la madre e il futuro figlio Anthony, ma il destino di questi bambini, firmato in un contratto, è quello di essere adottati da famiglie benestanti. Lo strappo è forte e anche se sono passati 50 anni, Philomena non dimentica. Finché incontra, con l’aiuto di sua figlia, Martin Sixsmith, un brillante giornalista, agnostico e disilluso, che, costretto alle dimissioni dal governo Blair, si interessa alle potenzialità emotive e commerciali di questa storia. Il viaggio alla ricerca del figlio è un viaggio anche nella memoria del passato, spesso crudele e sofferente, dove la semplice fede e la magnanimità di Philomena (il suo punto debole è il piacere di leggere romanzi rosa di poca qualità) si scontra con la durezza e il continuo cinismo di Martin, un uomo che si accosta con ironia alla comprensione della fede e si avvicina con rabbia alla verità.Del contesto religioso, che nasconde una tomba – volutamente non riveliamo altro per non rovinare il film che è ispirato a fatti veri, ma in parte romanzati della vita di Philomena Lee – il regista Stephen Frears dipinge un quadro crudele e irrespirabile, ma, pur se il suo sguardo è volutamente critico verso le istituzioni cattoliche, Philomena risulta un ritratto diverso da quelli cinematografici di Peter Mullan (Magdalene) o dai monasteri di almodoveriana memoria (anche se il dettaglio generoso, una fotografia del bimbo Anthony scattata di nascosto, è frutto di un gesto buono che Frears affida a una giovane suora). Non è il contesto a sostenere la fede, né a stimolare l’odio, ma l’esperienza dolorosa di una debolezza (nel film, che il New York Times definisce detective story anticlericale, l’accento è fin troppo marcato nel sottolineare la poca misericordia che caratterizza le religiose), condurrà Philomena alla generazione del perdono e non allo smarrimento del cuore.Al di là delle intenzioni del regista, la storia fa scoprire che, quando l’amore, che non può essere definito semplicisticamente ingenuo buonismo, è vissuto nella sua interezza a tal punto da diventare (per)dono, l’esistenza di una persona, come quella di Philomena, acquista più realismo, più umiltà e più comprensione. Diventa vita non vissuta a metà, ma in pienezza.
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