sabato 30 novembre 2019
Il direttore 47enne debutta alla guida dei Berliner. E saluta l’Opera di Stato di Monaco di Baviera con un’eccelsa «Città morta» di Korngold che così risorge oltre i pregiudizi
il direttore Kirill Petrenko (foto Hösl)

il direttore Kirill Petrenko (foto Hösl)

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Nella penombra della sala la signora tira fuori dal lungo abito scuro un fazzoletto per asciugarsi le lacrime che le scendono sul trucco. Si è commossa ascoltando il duetto Glück das mir verblieb (“Felicità che sei restata”), quel Lautenlied d’amore velato di malinconia e di dolore che è una delle icone di Die tote Stadt (“La città morta”) di Korngold. Sul palcoscenico della Bayerische Staatsoper, il maggiore teatro di Monaco di Baviera, si sfiorano le mani della star Jonas Kaufmann, al suo debutto nel ruolo del protagonista Paul, e della fenomenale Marlis Petersen nei panni di Marietta. Le lacrime dell’elegante madama sembrano quasi un suggello sull’addio di Kirill Petrenko, la bacchetta 47enne salita nell’olimpo musicale che è ormai il Kaiser indiscusso della scena musicale tedesca. Il maestro d’origine russa lascia dopo sei anni il timone dell’Opera di Stato bavarese per dedicarsi a tempo pieno alla Berliner Philharmoniker che nel 2015 lo ha eletto nuovo direttore principale. L’inizio ufficiale della sua era berlinese c’è già stato lo scorso settembre con la Nona Sinfonia di Beethoven condotta di fronte alla Porta di Brandeburgo per il trentennale della caduta del Muro. Adesso saluta il teatro che lo ha amato con il suo ultimo impegno della stagione invernale, prima di tornare sul podio a luglio per il Festival estivo di Monaco con Falstaff di Verdi e I maestri cantori di Norimberga di Wagner. Al suo posto arriverà come direttore musicale un altro russo: è Vladimir Jurowski, classe 1972, attualmente a capo della London Philharmonic Orchestra, che comincerà l’incarico nel 2020/21.

Per il congedo bavarese Petrenko regala al pubblico – non solo tedesco, visto che gli spettatori giungono anche da Italia, Francia, Stati Uniti o Giappone – un’encomiabile esecuzione del capolavoro tardo-romantico di Korngold (in scena fino all’11 dicembre). Come testimoniano i diciassette minuti di applausi al termine della prima, con il pubblico della platea che si accalca fino ai bordi della buca dell’orchestra, quasi a voler abbracciare il “divino”. Lui tira un sospiro di sollievo. Saluta i fan, rende omaggio all’orchestra, sorride ai cantanti. E si schernisce quando i battimani si ingigantiscono ogni volta che si affaccia sul proscenio. Perché Petrenko è un idolo, il “re Mida” del pentagramma che trasforma in splendore qualsiasi spartito metta sul leggio: dal Ring di Wagner a Bayreuth nel 2013 alla recente Salome di Strauss a Monaco. Accade anche con l’opera psicoanalitica scritta a 23 anni dall’enfant prodige austriaco di sangue ebraico che ha spopolato dal 1920 – anno del debutto – per un decennio fino a quando il Terzo Reich non l’ha messo al bando. Eppure ancora oggi il compositore emigrato a Hollywood, due volte vincitore del premio Oscar per le colonne sonore, è considerato figlio di un dio minore. E ci vuole Petrenko per riabilitarlo, allontanando ogni sospetto di «kitsch» (secondo il giudizio critico di Theodor W. Adorno) dal suo più noto dramma in cui echi di Strauss, Lehár, Mahler e Puccini si mescolano in una partitura caleidoscopica, dai variegati profili melodici, che il maestro siberiano trasforma in uno scintillio di colori sonori.

Una sorta di tributo voluto dal nuovo direttore dei Berliner per l’autore emarginato che, ispirandosi al romanzo Bruges-la-Morte di Rodenbach, ha narrato in musica i tormenti di Paul, abitante di Bruges, che di fronte alla morte della moglie Marie fa della sua casa un santuario della defunta e, quando incontra la ballerina Marietta, viene stregato dalla somiglianza alla consorte fino a cedere alle sue avance e a ucciderla. Un’attrazione (con omicidio) che – a differenza del libro – si rivelerà soltanto un sogno a occhi aperti attraverso cui Paul si libera della mancata elaborazione del lutto e che gli darà la forza di lasciare la “città morta” su consiglio dell’amico (ma anche rivale e alter ego) Frank. Grazie a Petrenko è un continuo impeto quello che sale dall’orchestra, compresi i pianissimi che conquistano. Anche i contrasti, come i passaggi dalle concatenazioni dissonanti alle melodie cantabili, vengono esaltati in una lettura intima ma al tempo stesso energica della musica onirica di Korngold di cui la bacchetta russa riesce a nobilitare persino una certa enfasi retorica.

Anche il cast è plasmato a sua immagine e somiglianza. Petrenko prende per mano i cantanti e stende sotto di loro un tappeto rosso. A cominciare dal tenore “bello” (e di fama) Jonas Kaufmann. Nel teatro della sua città natale si dimostra uno straordinario interprete di Paul, dolente e coinvolgente, benché non abbia più la brillantezza dei tempi d’oro e talvolta fatichi soprattutto negli acuti. Ovazioni per lui quando il sipario cala, anche se a rubargli la scena è il soprano Marlis Petersen. Per lo più sconosciuta nei teatri italiani, si rivela un gigante nel doppio ruolo di Marie e Marietta. Con il suo timbro cristallino e fresco, seduce e commuove. Ed è soprattutto nei momenti romantici e drammatici che dà il meglio di sé. Altrettanto encomiabile è il Frank/Fritz del baritono Andrzej Filonczyk che incanta nel famoso Lied di Pierrot Mein Sehnen, mein Wähnen (“Ogni mio desiderio, ogni pensiero”), perla del secondo atto. E colpisce Jennifer Johnston, un’ottima Brigitta – governante di Paul – con la voce magnetica e nitida.

Da Basilea giunge l’allestimento firmato dal registra australiano Simon Stone. Che segue meticolosamente il libretto. Ma con guizzi interessanti. A partire dall’idea di fare di Marie una malata di cancro. Se nell’opera una delle “reliquie” che il marito conserva fra le mura domestiche è la treccia dei suoi capelli, nella trasposizione di Stone è una parrucca. Che Marie, ogni volta che appare in scena sotto forma di allucinazione, si mette sulla testa rimasta senza capelli per la chemioterapia. Poi la città belga di Bruges diventa la periferia di una metropoli tedesca e la casa-tempio un appartamento fermo agli anni Settanta con tanto di locandina del film Blow-Up di Antonioni. È nel ripostiglio che Paul ha allestito l’“altare” della consorte stroncata dal tumore.

Giustamente il regista tralascia i richiami religiosi che nel libretto sono marchiati da un pregiudizio anti-cristiano di stampo ebraico secondo cui la fede cattolica genera sensi di colpa. E li tramuta in inquietudini interiori di Paul. Come avviene con la processione del Santo Sangue che, stando al testo originale, porterà il tormento del marito all’apice (per non essere rimasto fedele alla moglie morta) fino a spingerlo ad assassinare la ballerina e che, invece, a Monaco assume le fattezze di una carrellata mentale di infiniti volti della moglie e suo, sia da bambini sia da adulti. E anche la frase sibillina che chiude l’opera («Qui non c’è risurrezione») viene come sublimata. Merito di Petrenko che fa risorgere la dimenticata tote Stadt e che è pronto a volare nella capitale tedesca dove a dicembre sarà sul podio per tre concerti dei Berliner con il soprano Dania Damrau, a gennaio per altri tre con Daniel Barenboim al pianoforte e per ulteriori tre che avranno al centro la Sesta di Mahler.

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