venerdì 27 maggio 2016
PETER BROOK, addio alle armi
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«Questa vittoria è una sconfitta». Esausto e addolorato, il re cieco Dritarashtra, si aggira per il campo di battaglia dove sono morti i suoi cento figli, insieme a milioni di altri guerrieri. «Dove è la giustizia?» è la sua prima battuta mentre avanza lento sul palcoscenico del Teatro della Pergola di Firenze (dal 29 maggio al Teatro Storchi di Modena e poi in tournée internazionale), ed è la stessa domanda che ha spinto il maestro 91enne Peter Brook a tornare a lavorare sul Mahabharata , il grande poema epico indiano, testo fondamentale dell’induismo. Oggi, però, non è più tempo di messe in scene sontuose, occorre arrivare dritti, e in modo sintetico, al cuore del problema: ovvero, l’inutile follia della guerra. Con lo stesso scarno linguaggio del capolavoro dell’85 – niente scena, elementi e colori naturali – con cui sorprese il Festival di Avignone, Brook propone il medesimo adattamento di Jean-Claude Carrière, rivisto con Marie-Hélène Estienne, prodotto da C.I.C.T./Théâtre Bouffes du Nord. Solo che gli anni, e soprattutto i finanziamenti, passano e quello che trent’anni fa era un kolossal di nove ore con decine di attori internazionali (fra cui Vittorio Mezzogiorno), diventato poi una serie tv e un film, si è trasformato oggi in un Mahabharata 2.0, durata un’ora e dieci, con in scena solo 4 attori, tre africani e un irlandese, Carole Karemera, Ery Nzaramba, Jared McNeill e Sean O’Callaghan, e un musicista. Brook sceglie un momento preciso del poema epico più ampio della letteratura mondiale, impresa da far tremare i polsi con le sue 110.000 strofe, elaborato fra il quarto secolo a.C e il quarto d.C.. Con intelligenza, quindi, ci si focalizza sul campo di battaglia, Battlefield per l’appunto, dove si è appena conclusa la lotta fratricida tra due famiglie principesche, comuni discendenti di Bharata, eroe eponimo dell’India, anticamente chiamata Bharatavarsa, continente dei Bharata. I 18 giorni di battaglia feroce tra i cinque fratelli Pandava e i cugini Kaurava si sono trasformati in uno sterminio da cui tutti escono sconfitti. Il giovane Yudishtira, il re dei Pandava, ha vinto, ma guardando intorno la morte e la distruzione provocata, viene assalito da dubbi e rimorsi, come pure il suo avversario, il vecchio re Dritarashtra. E le loro domande, il loro interrogarsi dolente sulla neces- sità della guerra e, soprattutto, sulle proprie responsabilità personali che tormentano il cuore riempiendolo di angoscia, ancora riecheggiano nelle orecchie di noi contemporanei come un monito senza tempo. «In guerra una vittoria è una sconfitta – afferma il regista inglese –. Voglio raccontare la storia di Battlefield per far capire a Obama, Hollande, Putin e a tutti i presidenti cosa succede dopo la battaglia. Se tu sei un leader e sostieni una guerra devi sapere che farai milioni di morti, anche se vinci». In realtà lo spettacolo che mette in scena Brook oggi, come lui stesso svela, è lo spunto da cui venne originato lo spettacolo dell’85. Dieci anni prima Brook e i suoi attori si riunirono in un workshop con dei colleghi americani per riflettere sulla guerra del Vietnam, raccogliendo testimonianze di prima mano dagli stessi artisti. «Arrivò un giovane indiano – racconta Brook – che mi disse di non avere nessuna esperienza diretta, ma solo un piccola pièce di 5 pagine ispirata al Mahabharata, ambientata sul campo di battaglia, in cui il protagonista Yudishtira si ferma, intenzionato a non fare più la guerra e chiede al dio Khrisna: “Perché io devo combattere ancora?”». Da quello spunto, dopo 10 anni di lavoro, si arrivò quindi a uno di capisaldi del teatro contemporaneo. Brook paragona l’opera indiana alla Bibbia e a Shakespeare, un insieme di epica, spiritualità e dramma umano: la sintesi è un teatro dove è più forte l’influenza del Bardo, di cui Brook e uno dei maggiori interpreti, che quella di Khrisna. Bastano pochissimi mezzi e un gruppo di attori affiatati, per entrare in un mondo affascinante, in cui sul tema portante della guerra si innestano per accenni, attraverso racconti fantastici che alleggeriscono il lavoro con un sorriso, i temi del rapporto col divino, con la reincarnazione, la filosofia e le domande sul destino. Tutto questo dà il necessario sapore del contesto, ma non si tratta di un’opera dottrinale, anzi, il tentativo è di operare una sintesi moderna che metta al centro gli eterni dilemmi dell’umanità. Fra questi quello della vera giustizia, che il giovane re Yudhisthira pone come cardine della propria vita, lui nato dal connubio della madre Kunti con Dharma (dio della giustizia). Come potranno il giovane e il vecchio re, i due volti del potere in una lotta metaforica fra il bene e il male, raggiungere la pace interiore dovendo vivere con gli effetti di questo massacro che li ha privati dei propri figli, delle proprie famiglie e degli alleati? Potrebbero scorrere alle spalle dei protagonisti le immagini dei bombardamenti in Siria piuttosto che quelle delle esplosioni nei mercati di Baghdad. E la scelta di due attori di origini rwandesi, non fa che sottolineare la tensione all’attualità. Il finale di Battlefield insiste sulla ricerca della purificazione e di un senso più alto della vita. Ma che si deve riflettere anche nella pratica del buon governo su questa terra, come ricorda il vecchio re morente Brishma invitando il nipote, futuro re, a praticare l’onestà e la cura dei poveri. Forse più pessimista oggi Brook, che ci lascia però una speranza: «Quando guardiamo i notiziari – conclude – siamo arrabbiati, disgustati, furiosi. Ma nel teatro ognuno può vivere attraverso tutto questo e uscire più sicuro, coraggioso e fiducioso nel poter affrontare la vita. Per me il teatro è la possibilità di vivere, per un’ora o due, in un luogo di raccoglimento insieme al pubblico, un’esperienza condivisa affinché ognuno possa sentirsi rigenerato dai propri pensieri».
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