venerdì 18 ottobre 2013
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Esce di rado dal suo rifugio napoletano, all’Arenella, non beve più whisky e fuma anche di meno. Anzi ha smesso proprio: «L’ultima sigaretta è stata tre anni fa...», ci tiene a precisare questo signore del calcio che è Bruno Pesaola, per la più nobile storia di cuoio, meglio noto come il “Petisso”. Il “piccoletto” nella lingua madre, il castigliano. Un italiano d’Argentina, nato a Buenos Aires - il 28 luglio del 1925 - da famiglia marchigiana: papà Gaetano era un calzolaio di Montelupone (Macerata). Dalle partite di strada con il pallone di stracci al barrio Avellaneda, alla scuola di fútbol e di vita di mastro Renato Cesarini, quello del gol in zona y final («Marchigiano anche lui di Senigallia»), nelle giovanili del River Plate, assieme al quasi coscritto Alfredo Di Stefano (classe 1926). Sul “Giornale d’Italia” il giovane Bruno leggeva la cronaca del Paese d’origine dove sarebbe arrivato solo dopo aver tolto le stellette militari per diventare a 21 anni la stellina della Roma, nell’era pre-oriundi. «Roma non era ancora la città della “Dolce vita”, anzi, macerie e odore di guerra un po’ dappertutto, ma si stava bene con 120 mila lire al mese in saccoccia per giocare a pallone, quando un operaio ne prendeva 30 mila». Il brevilineo dell’attacco giallorosso alla domenica pomeriggio faceva coppia con il “fornaretto” di Frascati, Amedeo Amadei («Gran signore e grande classe»), alla sera invece con l’istrionico Walter Chiari («Con lui ho recitato nell’Inafferrabile 12>») girava per Caffè e Riviste di via Veneto. Poi, un fulmine sotto il cielo sereno del Cupolone, una rasoiata assassina a frantumare tibia e perone. «Fu con il Palermo. Chi è stato a “rompermi”? Non mi ricordo più neanche il nome...». Signorilità dell’uomo che ha perdonato da un pezzo il mastino Gimona, la cui entrata letale lo costrinse a lasciare la Roma: destinazione il Novara. Lì conobbe “miss Novara”, sua moglie Ornella («L’unico grande amore della mia vita») e fece tandem con Silvio Piola. «Il più forte centravanti che abbia mai visto, bomber insuperabile (297 gol, ndr). Appena arrivato gli davo del “lei”. Oggi non si usa più lo so, come è cambiato ’sto mondo...». Dal Novara al Napoli, inaugurando lo stadio San Paolo (il 6 dicembre del 1959) nella sfida contro la Juventus. «Era la Juve invincibile di Boniperti, Charles e del mio grande amico Sivori, ma vincemmo noi, 2-1». Da lì in poi una lunga striscia azzurra, come il mare che bagna via Caracciolo: 240 presenze e 27 gol da calciatore e sei stagioni da tecnico (con due ritorni) al Napoli. Da allenatore, con i «diamanti» Sivori e Altafini, nella stagione 1967-’68 sfiora lo scudetto. «Sivori era grande quanto Diego Armando Maradona, ma Diego resta il più forte di tutti, anche di Pelè: primo perché ha giocato in Europa, secondo perché a Messico ’86 con l’Argentina vinse un Mondiale da solo. Il Brasile di Pelè aveva altri dieci campioni e nel ’62 in Cile divenne campione del mondo anche senza di lui». La stella del Brasile campeón del ’62 fu Amarildo che Pesaola ebbe nella Fiorentina del 1968-’69, quella del secondo e ultimo scudetto viola. «Era una bellissima squadra quella Fiorentina, siamo stati bravi e anche fortunati. In tanti anni di calcio ho capito una cosa: questo è un gioco schiavo dell’episodio». Per l’allenatore del Napoli attuale, Rafa Benitez, il calcio è essenzialmente “bugia”. «Ha ragione, a volte il campo mente...». Allora è bugiarda anche questa classifica con la Roma di Garcia capolista a punteggio pieno che stasera all’Olimpico sfida il Napoli? «La verità di un campionato si scopre solo alla fine. Garcia e Benitez se la possono giocare per lo scudetto, ma c’è sempre da fare i conti con la Juve. Io come Zeman? Ho sicuramente fumato quanto lui in panchina, ma credo di essere stato più un allenatore alla Conte, uno capace di fare il meglio possibile con i giocatori che si hanno a disposizione. Una filosofia che applica benissimo Mazzarri e ancora meglio alla Fiorentina Vincenzo Montella che per me è il tecnico del futuro». Il tecnico simbolo dell’attuale calcio italiano è il ct della Nazionale, Cesare Prandelli, che ha riportato il bel gioco al potere («Negli ultimi tempi un po’ meno, gli servirebbe un Totti. Francesco se se la sente deve andare in Brasile») ma non è riuscito ancora a raddrizzare il genio-ribelle, Mario Balotelli, che si è appena dissociato dal ruolo di testimonial anticamorra. «E ha fatto bene a non intromettersi e a stare lontano da ciò che non conosce – dice deciso –. Certe testimonianze si fanno se ci si crede veramente e non per compiacere la stampa. Napoli ha bisogno di legalità certo, ma soprattutto di lavoro, con quello, da città fantastica qual è diventerebbe un paradiso terrestre». Una città teatro che ha eletto il Petisso cittadino onorario, riconoscendogli quella stessa passionalità verace che si ritrova al San Paolo quando gioca il Napoli di Aurelio De Laurentiis. «Mi piace De Laurentiis? “Nì”. Dico di sì per il presidente che dalla Serie C ha riportato il Napoli ad essere competitivo anche in Europa e credo che in Italia possa vincere molto prima di quanto potrà farlo la Roma. No all’uomo, non rispecchia il mio modo di concepire la vita...». Una vita spesa ad insegnare che «anche se guadagni milioni di euro come Balotelli la felicità e la cultura non si possono comprare. Che se hai un’idea in testa, in campo devi realizzarla subito, prima che te la rubi l’avversario. E che da noi, finché sei nel giro del calcio, certe cose se non le dici è meglio, perché faranno in modo di metterti contro la gente. E nonostante tutta ’sta tv, è ancora il popolo dello stadio che tiene in piedi questo sport». Una cosa che il Petisso non ha «mai detto prima», è la storia di quel Roma-Napoli del ’49: «Io e Amadei eravamo infortunati, tornammo dai fanghi e ci chiesero come stavamo... Amadei rispose “non bene” e non giocò. Io dissi “tutto a posto”: schierato dal primo minuto, segnai una doppietta e battemmo il Napoli 2-1 che poi finì in B. Da napoletano, è un fatto che non ho mai sbandierato». Un segreto di Pulcinella o una mezza bugia alla Benitez, ma per il caro vecchio Petisso il calcio era e rimane qualcosa di più profondo. «A Napoli come a Buenos Aires, il campo di calcio resta una palestra di vita e un’uscita di sicurezza. Il mondo è cambiato tanto, ma qui farcela con il pallone vuol dire ancora riscatto sociale e la possibilità per i giovani di avere un futuro migliore, lontano dalla miseria e dalla violenza della strada».
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