martedì 23 settembre 2014
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Prima la domanda di cortesia. Buongiorno sovrintendente, come va? «Bene, sperando di poter restare sempre con i piedi per terra». Alexander Pereira risponde pragmatico. Subito le notizie che arrivano dal mondo della lirica, tra riforme ministeriali, tagli ai contributi e dimissioni illustri (quelle di Riccardo Muti dall’Opera di Roma), irrompono nella scaletta di quesiti da rivolgere al sovrintendente del Teatro alla Scala sul ritorno al Piermarini della musica sacra. E la domanda su come sta la Scala in questo panorama è d’obbligo. Pereira, arrivato ufficialmente ai vertici scaligeri il 1° settembre e subito impegnato nel confronto con i lavoratori, butta lì un «occorre un po’ di tempo». Ma aggiunge subito che in teatro «tutti cercano di aiutarmi. Sto imparando a dorientarmi nella complessità di un’istituzione come la Scala. Un lavoro difficile, certo, alleviato però da quella bellezza che l’arte sa trasmettere». Riprendiamo allora da qui, dalla capacità della musica di elevare lo spirito. Perché grazie a Pereira il repertorio sacro torna nel teatro milanese dopo essere stato latitante a lungo. Lo fa da lunedì prossimo quando La creazione di Franz Joseph Haydn diretta da Zubin Mehta aprirà la stagione sinfonica del teatro. «Ho sempre scelto questa pagina per inaugurare il mio mandato nei teatri e nei festival che ho diretto. Per il suo contenuto spirituale ma anche per un legame affettivo: la mia bis bis nonna, socio fondatore del Musikverein a Vienna, finanziò l’Accademia per l’esecuzione dell’oratorio». All’indomani della sua nomina a sovrintendente della Scala aveva assicurato che uno dei punti qualificanti del suo programma sarebbe stata la grande tradizione sacra. Perché questa scelta?«Prima di tutto la mia formazione. Ho studiato in collegio dai Gesuiti a Vienna e ogni mattina alle sei eravamo tutti in chiesa per la Messa. Sicuramente, poi, la convinzione che i maggiori compositori hanno scritto i loro capolavori proprio nell’ambito della musica sacra. Una questione artistica, dunque. E poi la fiducia che questa musica che nutre lo spirito sa allargare il pubblico di un teatro invitandolo alla riflessione. L’ho sperimentato a Salisburgo dove ho voluto che il Festival ogni anno si aprisse con una “Ouverture spirituelle”, una settimana interamente dedicata alla musica sacra. E ho notato che il contenuto spirituale unito alla qualità artistica delle esecuzioni proposte è riuscito a dare una marcia in più alla rassegna, facendo sì che la mondanità da sempre legata al Festival si ridimensionasse. Penso possa funzionare anche a Milano». Che percorso ha pensato per la Scala?«Dopo La creazione, dal 3 ottobre avremo la Messa da Requiem di Verdi con il futuro direttore musicale Riccardo Chailly sul podio. Una pagina che tornerà ogni anno diretta in alternanza da Chailly e da una bacchetta ospite. E non solo nella sala del Piermarini, ma anche in San Marco dove il Requiem ebbe la sua prima esecuzione. E per il Concerto di Natale Philippe Jordan proporrà la Missa solemnis di Beethoven. Con il direttore del coro, Bruno Casoni, stiamo preparando una Messa di Anton Bruckner che eseguiremo in Duomo e a Pavia».Pensa anche a un festival per la città?«Mi piacerebbe, certo. Progetti e idee non mi mancano: servono, però, tempo e risorse. Per ora ho iniziato a mettere qualche punto fermo da cui si svilupperanno tutti i discorsi futuri. Abbiamo una risorsa straordinaria, l’orchestra e il coro del maestro Casoni, che collaborano saltuariamente sul fronte sinfonico: il repertorio sacro è l’occasione per fare musica insieme. Mi piacerebbe poi che la Scala collaborasse con le altre istituzioni musicali che già eseguono il repertorio sacro. Pagine che devono tornare a risuonare nelle chiese, perché nate per accompagnare le liturgie; nel tempo poi l’impossibilità da parte delle istituzioni ecclesiastiche di sostenere i costi ha fatto sì che questi capolavori venissero eseguiti nelle sale da concerto. Oggi non tutte le istituzioni musicali possono mettere in calendario pagine che prevedono orchestra, coro e solisti: ecco perché ritengo giusto che teatri come la Scala si facciano carico di mantenere vivo questo repertorio». Ha già in mente alcuni titoli? «Penso al Lazarus di Franz Schubert che si ascolta raramente, ma anche a The dream of Gerontius che Edward Elgar ha composto nel 1900 ispirandosi al poema del cardinale John Henry Newman. E poi a pagine pensate per la scena che troverebbe una collocazione ideale tra le navate di una chiesa come Il trionfo del tempo e del disinganno di George Friedrich Händel, Il figliol prodigo di Benjamin Britten e Assassinio nella cattedrale di Ildebrando Pizzetti. So che si parlava di portare a Milano il Saint François d’Assise di Olivier Messiaen: un progetto concreto non c’è, vedremo se riusciremo a farlo. Ora è presto per dirlo». Pensa anche a commissioni a compositori contemporanei?«Sicuramente, perché l’arte è valorizzazione della tradizione ma anche scommessa sui nuovi linguaggi per non restare ancorati al passato. Penso poi a un dialogo in musica tra le religioni: aprire alle tradizioni ebraica e musulmana (penso ai sufi che ho portato a Salisburgo) è fondamentale anche per rilanciare attraverso la musica quel processo di pace che oggi qualcuno con la violenza vuole mettere in discussione».
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