lunedì 1 giugno 2015
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«Il suo romanzo storico non è solo un bel lavoro artistico, ma è un vero monumento, che occupa nella storia dell’arte quel medesimo luogo che la Divina Commedia e l’Orlando Furioso»: così scrive De Sanctis nell’introduzione ai Promessi sposi. Tale impegnata e così netta elezione è motivata con l’ingresso, per la prima volta nella nostra letteratura, della storia e del quotidiano, del vissuto; storia e realtà vengono infine a coincidere con la scrittura. De Sanctis consacrava dunque e consegnava il romanzo alla nuova Italia: e la Messa da requiem di Verdi (1874) nell’anniversario della morte del poeta non meno che i Cori del Nabucco o dei Lombardi alla prima Crociata che tanto debbono (come struttura ritmica e figurale) ai Cori dell’Adelchi suggellavano quella funzione, civile e politica, di Manzoni e dei suoi Promessi sposi nella costruzione dell’identità italiana. Né ostava, a quel disegno, l’evidente finalità spirituale, provvidenziale, del romanzo, poiché essa, come ancora precisava il De Sanctis, era tutta incarnata e vissuta e misurata dalla storia umana: «Così l’ideale religioso e morale che è la finalità del romanzo, l’ultimo suo risultato, va a profondarsi nella infinita varietà della esistenza particolare, attingendo in recessi inesplorati del mondo reale novità e originalità di forme e di movenze, di cui non era esempio nella nostra letteratura».Lucia, la «bella baggiana» (I promessi sposi, cap. XXXVIII), non Beatrice la divina, non Angelica, non Armida, le seduttrici, diveniva emblema del cammino umano, essa che, alla fine del romanzo, tornava «contadina come tant’altre»: «Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno più bello dell’altro, e che so io? Cominciarono ad alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: "eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualcosa di meglio. Che cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n’è per tutto". Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto» (cap. XXXVIII). Questa "esistenza positiva" è il lascito del Manzoni: «una poesia che abbia tutte le apparenze della storia, e una storia che abbia tutta l’efficacia della poesia, fu il sogno di Manzoni» (ancora De Sanctis). Un’eredità non solo italiana, ma europea: gli eroi del popolo, di Balzac e di Hugo, di Leskov, arriveranno un po’ più tardi, talvolta attraverso la mediazione "borghese" che fu il polo concorrente della narrazione del XIX secolo, da Goethe a Flaubert. E questo fu anche il destino del Manzoni, di una vita divisa - e lentamente e difficilmente ricomposta - tra la via materna (Giulia Beccaria, figlia di Cesare, uno dei padri dell’Illuminismo lombardo, amica dei Verri, legata al "pariniano" Carlo Imbonati a Parigi con Sophie de Condorcet e con Fauriel, che farà conoscere l’opera di Manzoni a Goethe e tradurrà subito, 1823, le tragedie di Manzoni in francese) e quella paterna, possidente lombardo, terre e dialetto, che affida il figlio, dopo la separazione, a padri somaschi e barnabiti, tra Merate e Lugano. Quella formazione, tra Parigi e la Lombardia, tra francese e il dialetto del Porta, mancava di un fulcro e venne da Manzoni lentamente trovato: dalla lirica alla tragedia, ai cori «della causa dell’umanità» (Schlegel), al romanzo, fu la conquista di un dire comune: e nel romanzo ancora successe la progressiva limatura, dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi del 1827, a quelli "italiani" del 1840, controllata sul toscano la lingua e arricchito il romanzo di una seconda trama illustrativa, quella delle incisioni eloquenti di Francesco Gonin. Fu davvero la Biblia pauperum per l’Italia unita.Ma questa mutazione è possibile, poiché l’eroico, dal quale Manzoni pur parte, è bensì in scena, ma vinto: vinto il conte di Carmagnola, vinti Desiderio e Adelchi, vinto Napoleone dalle forze della storia; vinto l’Innominato dalla forza della Grazia. La storia così s’accampa non per illustrare le gesta dei magnanimi, ma per portarli tutti, grandi e piccoli, al «disonor del Golgota». Bisogna che la vita viva e si compia, che la spiga maturi con il loglio, che anche don Abbondio superi la prova e possa dire, sollevato e compiaciuto: «Se lo dico: il mondo non vuol finire» (cap. XXVIII). Non fu, per Manzoni, conquista facile: il mondo romantico (da Walter Scott a Chateaubriand) era ricco di modelli e di eroi: e Manzoni li assunse, a pieno contrasto: il delitto che redime: fra Cristoforo; il delitto che perde: la monaca di Monza. Vinse il Manzoni della «bella baggiana», sparì la Digressione e l’apologo raciniano, ma sparì anche la parte più fosca, e più "romantica" della storia della Monaca di Monza: il romanzo entrava nella storia dalla parte della «picciola colonia» di esuli, di operai, «lavoratori di seta», fuggiti nel Bergamasco. Diminuiva in grandezza, cresceva in interiorità: discendeva in quell’incertezza del cuore umano, dei meandri delle intenzioni che precedono e accompagnano l’agire. Nel momento stesso in cui verrebbe più facile opporre Manzoni e Leopardi: l’uno volto verso l’infanzia e l’origine, negatore della storia e dei portati di ragione; l’altro tutto preso a scrutare nella storia, dove realtà dei fatti e vero possano coincidere; proprio in quel punto il "Tutto è male" dello Zibaldone viene a coincidere con la manzoniana «disperazione» di una «natura umana spinta invincibilmente al male». La storia o l’origine: eredita il dilemma il nostro XXI secolo, al quale la seconda parte del XX, con le guerre, gli stermini, le bombe atomiche, i massacri, le carestie, ha aggiunto il problema - squisitamente leopardiano- della fine: sopravviveremo alla nostra malvagità? Sarebbe tuttavia vano contrapporre i due autori; tanto nella Ginestra e così prima, nella Appendice storica su la Colonna Infame, 1825-1827, la fine è già accaduta e continua ad accadere. Ogni istante è «sterminatore», ogni pagina di storia è la notizia e l’archivio di una fine: «e senza cercare altro, siam posteri anche noi», concluderà Manzoni (Appendice storica su la Colonna Infame). Che cosa resta, infatti, quando più nulla è da attendere, quando tutto è finito? Appare dal fondale ciò che continua a mancarci: «Ma la vita mortal […] /  Vedova è insino al fine […]» (Leopardi, Il tramonto della luna), nient’altro che l’ignoranza di chi ha creduto conoscere: «Quella ignoranza nella quale può cadere, e cade pur troppo, l’uomo delle età più scienziate, e dalla quale può liberarsi l’uomo delle più rozze» (Si direbbe Leopardi, ed è Manzoni, Appendice storica su la Colonna Infame).
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