martedì 30 giugno 2020
Per il teologo olandese Fred Van Iersel "la prosperità rafforza la secolarizzazione, e questa la rimozione della morte"
Per vincere il male serve più autostima

Ansa

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“Avvenire” ospita un articolo di Fred Van Iersel, professore di teologia cattolica all’Università di Tilburg, pubblicato di recente dal quotidiano olandese di ispirazione cristiana “Nederlands Dagblad”. Questa collaborazione condivide l’impegno nella promozione dei valori di dialogo, solidarietà e cura, in particolare per i più deboli. Il progetto coinvolge anche il quotidiano francese “La Croix” e vuole mettere a disposizione dell'opinione pubblica europea un approccio all'attualità ispirato ai comuni valori cristiani.

Cosa rivelano l’esperienza e la gestione della crisi del coronavirus sulla popolazione in generale e sul nostro modo di relazionarci con la morte? La nostra cultura, il nostro modo olandese di rapportarci alla morte, ha forse messo il nostro governo sotto una pressione sproporzionata? Dobbiamo prendere coscienza del fatto che il governo davvero non può effettivamente garantire la vita a nessuno. La filosofa americana Judith Butler, per la stessa ragione filosofica, nega addirittura il “diritto alla vita” come diritto universale, che peraltro i Paesi Bassi hanno riconosciuto nella Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. Infatti, dice Butler, nessuno può veramente garantire tale diritto, poiché siamo tutti mortali. Naturalmente ciò non esclude assolutamente l’impegno da parte del governo di fare tutto il possibile per prevenire la morte delle persone più vulnerabili. Ma la visione di Butler sul “diritto alla vita” mette bene in luce il limite di questo impegno.

I Paesi Bassi sono per lo più secolarizzati. Negli ultimi decenni, la fede nella vita “dopo” la morte è diminuita sempre più drasticamente; e parallelamente il desiderio di una vita lunga, felice e in buona salute è cresciuto al punto che le persone ritengono non solo di poter desiderare una lunga vita, ma addirittura di avere “diritto” a una vita lunga, felice e in buona salute. E chi deve garantire questo diritto? Il governo! Secondo gli olandesi anche il senso della vita deve essere vissuto esclusivamente prima della morte. Molti ritengono che la salute sia perciò il valore più alto.

Così sembrerebbe che l’umanità oggi tragga la felicità proprio dal reciproco rafforzamento tra autocontrollo e autostima. La salute offre la possibilità di esercitare quel self control (il controllo autonomo sulla propria vita) che serve alla maggior parte degli esseri umani per avere self esteem (autostima). Per alcuni l’autocontrollo è addirittura una condizione imprescindibile per restare in vita, come ad esempio si evince dal pensiero olandese circa l’eutanasia.

Siamo ancora capaci, nella nostra cultura, di accettare la morte come qualcosa che fa parte della vita? In molte culture antiche e nelle prime fasi della cultura europea, le persone sapevano accettare meglio la morte, rispetto a noi. Non è che forse non solo abbiamo combattuto la morte con successo, ma l’abbiamo anche rimossa, sia a livello collettivo che a livello individuale?

Ormai prosperità e benessere sono diventati così allettanti che vorremmo mantenerli per sempre; ci rendono perfettamente capaci di auto realizzarci e di auto trascenderci. Ma c’è il rovescio della medaglia: che con questa visione sulla “significatività” e sulla motivazione personale, la resilienza morale dell’uomo e della sua cultura è messa sotto attacco. È proprio quello che stiamo scoprendo nella crisi coronavirus. La significatività non è più la ciliegina sulla torta, ma una condizione necessaria per la risoluzione del problema. Per questo ora la resilienza è ovunque ai primi posti delle agende della cultura politica. Questa forza di reazione è un elemento chiave della significatività. Una persona che fa parte di una cultura che sposa la piramide di Maslow, non è resiliente.

L’applicazione della teoria motivazionale di Maslow alla nostra cultura potrebbe essere cinicamente sintetizzata così: la prosperità rafforza la secolarizzazione, la secolarizzazione rafforza la rimozione della morte e spinge le persone a mettere il sé e l’autocontrollo al primo posto. Ma quando finalmente le persone riusciranno a realizzarsi e ad auto trascendersi, sia Dio che letteralmente il prossimo bisognoso saranno scomparsi dalla visione comune come fonte di significatività; pensate ai malati delle favelas sparse per il mondo o agli abitanti dei campi profughi.

Nel ricco Occidente abbiamo molto da perdere. Tuttavia l’Occidente sembra aver già perso in larga misura la cosa più importante di tutte: la fiducia nell’origine e nella meta dell’uomo: l’universale e eterno amore di Dio. Peraltro, la vita eterna nell’amore predicata dal cristianesimo non inizia dopo la morte. C’era prima che noi nascessimo, c’è ora e ci sarà “dopo”: rappresenta una dimensione e una qualità dell’esistenza che supera il concetto di tempo. L’eternità non è perciò la costruzione astratta di “un quarto tempo” dopo il nostro passato, presente e futuro apparente. Nell’idea cristiana della vita eterna, la vita terrena ha valore, ma necessita un compimento tramite la qualità che viene chiamata “vita eterna”: Dio come Creatore dona all’uomo la dignità, la rafforza come Redentore diventando uomo e perfeziona l’amore dopo la morte. La fede cristiana intesa in questo modo rafforza l’autostima, nel migliore dei casi, e diminuisce l’importanza di un totale autocontrollo. Il cristianesimo non crede che la morte abbia l’ultima parola sull’esistenza umana: l’amore di Dio supera quel limite. La morte è reale, ma non più onnipotente e pertanto incute meno timore.

Peraltro, non è affatto certo che tutti gli anziani vulnerabili residenti nei Paesi Bassi siano dell’avviso che tutta la sanità e l’economia debbano essere orientate proprio verso loro sopravvivenza terrena. Sono proprio gli anziani spesso che sanno che non esiste la vita senza la certezza che prima o poi moriremo, e che non è possibile evitare in senso assoluto ogni rischio di morire.

Come sperimentano la crisi coronavirus coloro che non credono che la morte sia la fine di tutto? Perché anche questi ci sono! Ma perché allora non li vediamo e non li sentiamo quasi mai parlare nei talk show? Non sarà forse arrivato il momento per riflettere sulla parola culturalmente scomoda di Gesù di Nazareth: chi vuole salvare la propria vita, la perderà (Marco 8, 35)?

Ma il significato si spinge oltre. Arriva alle fondamenta della nostra cultura. La politica non può permettersi di dare l’impressione di non difendere i deboli. Noi olandesi possiamo in un certo senso considerarci fortunati per questo: meglio uno scudo per i deboli che un governo indifferente.

Tuttavia, i cittadini devono pronunciarsi più apertamente riguardo all’altro problema cruciale nella nostra cultura occidentale: la definitiva inutilità del bisogno di controllo che non fa altro che intensificare la nostra paura della morte. Così che il confine tra la lotta contro una inutile morte prematura e la rimozione della morte sarà sempre più indistinto.

(Traduzione di Marta Latilla)

© Nederlands Dagblad

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