mercoledì 17 luglio 2019
«La sua testimonanza è ancora più credibile perché proviene da uno scrittore grande e poliedrico. Quel che più gli sta a cuore è l’indagine sull’uomo»
Per Primo Levi un cantiere aperto
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Parla Marco Belpoliti, curatore delle opere dell’autore torinese: «Anche foto e interviste aiutano a comprendere la complessità di una visione segnata dalla tradizione dell’umanesimo» Per celebrare il centenario della nascita di Primo Levi non serve un monumento, ma un cantiere sempre aperto. Ne è convinto Marco Belpoliti, che da oltre vent’anni lavora sui suoi testi. Almeno dal 1997, se vogliamo fissare una data: da da Einaudi pubblicò l’edizione delle opere di Levi curata da Belpoliti stesso. Da allora, oltre a dedicarsi alla revisione e all’ampliamento di quel progetto (ora articolato in tre volumi, apparsi tra il 2016 e il 2018), lo studioso non ha mai smesso di occuparsi dello scrittore torinese, anche con strumenti in apparenza inusuali nell’ambito della critica letteraria. Il film La strada di Levi, per esempio, di cui Belpoliti è autore insieme con il regista Davide Ferrario, oppure il recupero e il commento delle fotografie dello scrittore in svolgimento sul sito www.doppiozero. com. Il ricorso alle immagini era già uno degli elementi caratterizzanti di Levi di fronte e di profilo, il corposo saggio in forma di schedario che Belpoliti, ordinario di Sociologia della letteratura all’Università di Bergamo, ha pubblicato nel 2015 da Guanda. «Spesso dalle istantanee o dai ritratti fotografici emergono dettagli che ci permettono di comprendere meglio la complessità di Levi», spiega Belpoliti.

Foto a parte, qual è oggi l’immagine prevalente di Levi?
Quella di un grande scrittore che è stato testimone di un’epoca terribile. Può sembrare una definizione semplice e immediata, ma in realtà è l’esito di un percorso interpretativo delineatosi negli ultimi decenni. Prima di allora Levi era rimasto prigioniero di se stesso o, meglio, del ruolo di testimone che gli era stato attribuito in via esclusiva. Dalla fine degli anni Cinquanta in poi, si guardava a lui come all’autore antifascista per eccellenza, sia pure con un significativo cambio di passo rispetto a quella che era stata, fino ad allora, l’esaltazione dell’eroismo partigiano. La deportazione degli ebrei era un tema relativamente poco esplorato prima di Se questo è un uomo e Levi riusciva a collocarlo in una dimensione universale. Dalle sue pagine emergeva con chiarezza che il progetto nazista non si esauriva nello sterminio di un popolo, ma mirava a rimodellare l’essere umano nel profondo. Eppure c’è voluto del tempo perché lo scrittore emergesse in tutta la sua importanza.

Quale è stato il punto di svolta?
Anzitutto Il sistema periodico, il libro del 1975 nel quale la potenzialità narrativa di Levi si esprime con forza incontestabile. Nello sfondo autobio- grafico di quei racconti la memoria del lager è presente e riconoscibile, ma ancora più centrali sono le riflessioni sulla chimica e sull’ebraismo. Pochi anni più tardi, nel 1978, La chiave a stella ribadisce il primato del Levi scrittore, che con questo libro si aggiudica il premio Strega. Il riconoscimento c’è, ma continua a essere parziale. Mentre Levi è in vita, critici come Alberto Asor Rosa e Pier Vincenzo Mengaldo non si occupano quasi per nulla di lui. Lo si considera un memorialista, un dilettante di talento, ma pur sempre un dilettante. Gli si rimprovera, tra l’altro, di non aver mai scritto un romanzo vero e proprio. Anche per questo il racconto di invenzione di Se non ora, quando?, con cui nel 1982 torna a vincere il Campiello a quasi trent’anni di distanza da La tregua, segna una tappa niente affatto trascurabile. Ora che Levi si è affermato come romanziere, lo si può finalmente ritenere uno scrittore.

L’apprezzamento letterario mette in secondo piano la testimonianza?
Al contrario, la rende ancora più credibile perché la testimonianza stessa proviene, appunto, da uno scrittore grande e poliedrico, la cui efficacia sta nel praticare generi diversi, dalla poesia al fantastico, dall’autobiografia al romanzo, senza lasciarsi ingabbiare in nessuno di essi. D’altro canto, Levi stesso non esita a mettere in discussione lo statuto del testimone. Lo fa in particolare nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, nel quale dichiara che la memoria è uno strumento sì straordinario, ma insieme fallace, rispetto al quale è sempre necessaria la contestazione e la verifica. Per diretta ammissione dell’autore, I sommersi e i salvati è un libro che va difeso contro se stesso. Ed è, ancora oggi, un invito a respingere ogni soluzione di comodo. Il torto peggiore che potremmo fare a Levi sarebbe quello di erigergli un monumento nel quale lui stesso stenterebbe a riconoscersi.

Rimane il cantiere aperto?
Esattamente. Me ne sono reso conto mentre allestivo il terzo volume delle Opere, oltre mille pagine di interviste che mettono in risalto una molteplicità di aspetti altrimenti trascurati. Penso all’interesse di Levi per l’ecologia e all’attenzione rivolta agli animali, alle considerazioni sul gioco e sulla lingua, alla ricorrente meditazione sul dolore. Su tutto risalta un’umanità ricchissima, nutrita di saggezza, intelligenza, perspicacia. Levi dimostra un’attitudine empatica dalla quale non si può non essere toccati. L’incomunicabilità, come ripete in I sommersi e i salvati, è per lui qualcosa di inaccettabile, addirittura incomprensibile. Nemmeno la condanna risoluta del nazismo gli impedisce di cercare di capire e interpretare il popolo tedesco.

In questo agisce anche una componente religiosa?
Non bisogna dimenticare che l’ebraismo di Levi è un fatto culturale, non una fede: un modo di vivere e di fare esperienza, non un credo. La sua spiritualità, se così vogliamo definirla, si declina nella visione umanistica dell’esistenza. Fin dall’esordio, quel che più gli sta a cuore è l’indagine sull’uomo, lungo una linea che dal Dante della Commedia arriva fino all’ironia di Manzoni, all’amore per gli ultimi su cui poggia l’edificio dei Promessi sposi. È la tradizione dell’umanesimo cristiano, nella quale Levi riconosce l’elemento portante della cultura europea. Sotto questo profilo, il non credente Levi si rivela molto più cristiano di tanti che invece cristiani si professano senza avere il suo senso di umanità, la sua sollecitudine verso la singolarità irriducibile di ogni essere vivente. Più passa il tempo, più Levi si distingue sempre per la lucidità e la tenacia di questa consapevolezza creaturale. (2. continua)

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