Don Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Cei - -
«Non sono semplici concorsi, quelli promossi dalla Chiesa. E non riguardano solo le chiese, ma anche i locali parrocchiali: lo scopo è sempre di ottenere la massima qualità architettonica, come servizio alla comunità », nota don Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto parlando delle procedure per selezionare i nuovi progetti.
Nel tempo lo svolgimento dei concorsi è cambiato. Perché?
La formula attuale è figlia di un cammino cominciato coi Progetti Pilota. Allora si dava molta attenzione ai problemi dimensionali e di inserimento nel contesto, ma mancava qualcosa: alcuni progetti, pur selezionati da giurie competenti, non sono stati accettati dalle comunità. Chi mi ha preceduto in questo Ufficio ha cercato di promuovere un maggiore coinvolgimento e sono nati così i Percorsi Diocesani: concorsi gestiti insieme con le parrocchie. Nessuno dei progetti così elaborati è stato rifiutato.
Prima del Concilio le committenze erano nelle mani del vescovo o del parroco.
Poi committente è diventata la comunità tutta: in senso sinodale. Ed è cambiato anche chi realizza il progetto: non più solo l’architetto visto come depositario di tutte le competenze: artistiche, strutturali, urbanistiche... Già ai Progetti Pilota potevano partecipare solo gruppi con diverse professionalità tra cui, sempre più rilevante, quella del liturgista. Più recentemente ci siamo posti il problema, se sia possibile, non solo comporre gruppi articolati, ma che questi dialoghino con una committenza a sua volta ben strutturata.
Questo come avviene?
Il cardine sta nell’ottenere un Documento preliminare alla progettazione (Dpp) che rifletta veramente le necessità della comunità, perché i progetti che parteciperanno al concorso dovranno soddisfare quanto lì è scritto. Abbiamo attivato anzitutto i laboratori dei Convegni liturgici internazionali di Bose (Cli lab) in cui giovani provenienti da diverse discipline si sono confrontati sul tema delle nuove edificazioni. Sulla base di tale esperienza, ove vi sia necessità di un nuovo intervento si apre un dialogo a tutto campo coi parroci e i parrocchiani. È un sistema apprezzato, perché permette a tutte le parti di capire e di formarsi: infatti anche i committenti vanno formati. Non è detto che sappiano quel che vogliono: l’architettura e l’arte contemporanee sono difficili da capire. La comunità va ascoltata ma va anche educata. In molti casi i giovani formatisi col Cli lab contribuiscono ad animare le comunità perché i Dpp sulla base dei quali si convocano i concorsi veramente le rappresenti. Non vi sono edifici già realizzati secondo questa nuova modalità, ma diversi concorsi si sono conclusi: a Oppido, Locri, Napoli, Civita Castellana, Acerenza. Altri sono stati convocati a Catanzaro, Teramo, Monreale. Altrove, come nelle diocesi di Treviso o a Teano-Calvi, si è nella fase preliminare di raccolta delle informazioni e di formazione delle comunità. Rendere pastorale una chiesa non è questione tecnica, ma richiede un collegamento con la vita quotidiana delle persone.
Le persone come reagiscono?
Tra i fedeli la disponibilità è massima. Cerchiamo di rivolgerci anche a chi è estraneo alla Chiesa: perché i centri parrocchiali non sono solo luoghi di evangelizzazione ma anche di incontro coi lontani. C’è comunità anche quando ci si ritrova attorno a un tavolo per giocare a carte... Se il luogo è bello e sentito come proprio, lo spirito ne trae giovamento. Il dialogo va a vantaggio di tutti.