lunedì 17 novembre 2014
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Péguy è un autore «maledetto»: ma è una maledizione estremamente paradossale. È uno degli autori più celebri della letteratura francese: nessuno ignora il suo nome, eppure nessuno lo legge. È un nome vuoto, è una specie di illusione, un insieme di cliché biografici: questo è Péguy.
Si sa che è morto sul campo con onore: ciò che per tanti anni è stata un’immagine di sfida, è poi divenuta un’immagine ridicola perché è diventato ridicolo morire sul campo con onore. Per quanto riguarda la sua opera, c’è un triplo discredito che ne impedisce al giorno d’oggi la lettura. Péguy non viene studiato perché viene considerato come un giornalista, come uno stilista e come un fascista. Ne ho fatto io stesso esperienza: ho scoperto Péguy per caso, leggendo "La nostra giovinezza", non a scuola. Sebbene abbia fatto degli studi di carattere letterario, non vi ho mai incontrato Péguy. Prima di tutto, Péguy viene percepito come un giornalista; ed è vero che la sua potenza filosofica si è distribuita in articoli di giornale. Péguy, al tempo dall’"affaire Dreyfus", sogna un vero giornale, un giornale dove – dice – si scriva stupidamente la verità stupida, si dica noiosamente la verità noiosa, si dica tristemente la verità triste. Questo sogno nasce nel momento in cui Péguy vede la verità manipolata dallo Stato, nel momento in cui vede il partito socialista nascente cercare di strumentalizzare la verità. Da una parte la "raison d’état", la ragion di Stato, dall’altra la ragione del partito. Per sfuggire a quest’alternativa, fonda i "Cahiers de la quinzaine", che significa «quaderno quindicinale»: un’esperienza intellettuale unica. Ogni quindici giorni comparivano dei piccoli libri, o dei lunghi articoli, di cui Péguy era al tempo stesso l’editore, il redattore, nonché l’autore di alcuni. Come ha riferito egli stesso, lavorava in modo precario di quindici giorni in quindici giorni, e questo è uno dei motivi per cui quest’opera filosofica non è stata raccolta dalla filosofia. Quest’opera si è consegnata alle circostanze, all’evento, e la filosofia tradizionale non sopporta che il sistema oppure l’aforisma; essa ammette Nietzsche che ha una scrittura artistica, non sistematica ma aforistica, ma non ha ammesso Péguy. E d’altra parte è proprio a causa di questo legame, di questo ancoraggio alla circostanza che non si può più insegnare Péguy oggi, perché la sua opera – la sua grande opera in prosa, nella quale egli ha raggiunto al tempo stesso il massimo della poesia e il massimo della filosofia – richiede una conoscenza del contesto che gli studenti non hanno più. Dunque, perfino gli innamorati di Péguy rinunciano ad insegnarlo. Seconda qualificazione che scoraggia alla lettura: si dice di Péguy «è uno stilista, è un maestro di stile»; in altre parole, si privilegia in lui la forma, e a questo titolo lo si fa finire nella letteratura. E si dimentica così il carattere proprio della sua opera: di essere – tutta insieme ed indissolubilmente – filosofica e letteraria. I filosofi sono dei letterati, e i letterati non sanno analizzare che la forma. Terza qualificazione, la calunnia più grave: si dice di Péguy che sia il fondatore del nazionalsocialismo alla francese; in altri termini, si permette l’appropriazione di Péguy da parte di Petain. Vichy si è appropriata di Péguy: invece di protestare contro questa appropriazione indebita, la si accetta e la si legittima. Io credo che sia urgente far uscire Péguy dal posto dove è stato relegato, che sia urgente reinserirlo nella cultura viva, e cercherò di chiarire perché. Quello che ci minaccia oggi non è tanto il regresso definitivo nell’ignoranza, quanto piuttosto una specializzazione, una professionalizzazione ad oltranza della vita della mente, negli specialisti, nei ricercatori, sempre più competenti in ambiti sempre più ristretti: è questo che Péguy chiama un’«esistenza di morte». E a quest’esistenza di morte, vale a dire a questo abbandono della vita dello spirito e della mente alla professionalizzazione, Péguy risponde con ciò che chiama le «umanità», gli studi umanistici, in altri termini la cultura generale: mantenerla è la vera posta in gioco. Al tempo stesso, così parlando, Péguy appare come qualcuno che ha ereditato il Rinascimento, come un umanista nel senso che il Rinascimento donava a questo termine. La più bella definizione dell’Umanesimo, così come il Rinascimento ce l’ha lasciata, l’ho trovata leggendo uno storico delle idee italiano, Eugenio Garin. In un libro intitolato "L’educazione dell’uomo moderno" Garin fa apparire l’originalità dell’Umanesimo e del Rinascimento. La prima idea rivoluzionaria del Rinascimento è che l’educazione sia un mezzo per l’uomo di accedere alla sua umanità. In altre parole, il Rinascimento conferisce alla grande idea, che ha fatto l’Europa, della cura dell’animo una definizione umana e nient’altro che umana. Quando ci si occupava della cura dell’anima era in una prospettiva metafisica, di elezione, al di fuori del mondo; la cura dell’anima ridefinita dal Rinascimento è, invece, la cura di se stessi nel mondo e per il mondo. Seconda idea rivoluzionaria che il Rinascimento ci ha lasciato, dice Garin: l’uomo non accede alla sua umanità se non tramite il passaggio attraverso le opere della cultura, se non tramite la conversazione, che costituisce la lettura delle opere ammirevoli. E, terza idea, l’umanità è appannaggio di tutti gli uomini: dunque è necessario che tutti gli uomini si spingano verso questa esperienza. Péguy eredita questa terza idea: per definirlo, direi che si tratta di un umanista – nel senso che il Rinascimento ha dato a questa parola – sperduto nel modo moderno, perché Péguy è moderno. Si è concluso, invece, che è stato un nostalgico della tradizione, nel senso di un’autorità anti-argomentativa che dovrebbe dirigere gli uomini dall’alto in modo eteronomo. Una tale visione è ingiusta per Péguy, e testimonia di un restringersi, di una diminuzione della nostra comprensione del mondo. Non ci sarebbe che un’alternativa e la maggior parte dei pensatori della modernità lo pensa: o la tradizione, vale a dire l’eteronomia, o la modernità, vale a dire l’autonomia. L’opera di Péguy testimonia il contrario: non è favorevole alla tradizione a tutti i costi, è invece favorevole agli studi umanistici, vale a dire alla cultura come conversazione. Per dirlo con altre parole, Péguy è l’Umanesimo, nel senso che il Rinascimento ha dato a questa parola; è contro l’Umanesimo moderno, se si riprende la definizione che Heidegger ha dato alla parola Umanesimo: cioè, l’uomo considerato come padrone e sovrano della natura e della storia. La modernità, con Bacone, con Galileo, con Cartesio, instaura una sorta di nuovo programma: l’uomo padrone e possessore della natura, l’uomo signore di lettere per il miglioramento della condizione umana. La modernità instaura, allora, il regno dell’uomo; e se questo sogno tradurrà anche il concetto moderno della storia, concepita come un progetto unitario che conduce l’umanità al suo completamento (vale a dire, la storia ha un unico senso che a poco a poco in modo lineare per alcuni, in modo dialettico per altri) l’uomo accederà a questa posizione di sovranità, di onnipotenza e di onniscienza, onni-inglobante, onnicomprensiva. È dunque precisamente a questa visione dell’umanità come storia, a questa speranza, a questa escatologia, a questa promessa di sovranità che Péguy contrappone un’idea di umanità completamente diversa, concepita come pluralità nel proprio personale combattimento. Péguy non è moderno, ma non è nemmeno un pensatore della tradizione. Ci si può chiedere se non sia, in fondo, il primo dei pensatori postmoderni, o se il postmoderno attuale non sia una possibilità per Péguy. Purtroppo, ahimè, non credo sia così. Il sentimento del postmoderno è che noi non siamo più moderni, nella misura in cui non vogliamo credere alla storia come un processo unitario; noi vogliamo piuttosto che il moderno sia il valore fondamentale: non vogliamo più condannare qualcosa del passato perché è passato. Noi siamo turisti dello spazio e del tempo: è questo il mondo postmoderno. In tal senso, questo mondo non ha nulla a che vedere con la pluralità concepita e difesa da Péguy, poiché la sua pluralità è quella della conversazione e non quella del turismo. Il turista è pertanto la figura ultima della modernità; il postmoderno definito da Vattimo non è la destituzione del moderno ma il suo coronamento, e il turista è l’uomo il cui scettro è un telecomando, l’uomo che può girare il mondo cambiando programma velocemente. Il turista è dunque precisamente l’uomo moderno, che vede il mondo come pura e semplice disponibilità. Il pericolo nel quale ci troviamo oggi è quello di essere rinchiusi in un’alternativa nella quale – si potrebbe dire – da una parte c’è il turista, che cammina nel giardino della storia, che colleziona modelli, che passa da una cosa all’altra; e di fronte a lui sta una sorta di avversario costruito su misura, che sarebbe l’uomo radicato nel suo territorio, rinchiuso su se stesso, xenofobo, fascista e intollerante. L’ideologia turistica consiste oggi nel far passare per fascista tutto ciò che contesta: è il destino di Péguy, è il destino di molti altri pensatori. Se non facciamo attenzione, rischia di instaurarsi così una specie di movimento "politically correct". Rischiamo oggi di essere condannati a quest’alternativa e di essere immediatamente tacciati di intolleranza, di fascismo, di xenofobia, se ci rifiutiamo di ritrovarci nel turista e di vedere in esso la figura ultima dell’umano. Però questo è il nostro compito: penso che Péguy più di chiunque altro ci possa aiutare in questo. L’incontro. L’accademico radiofonico È il suo primo viaggio in Italia dopo la (contrastata) nomina ad Accademico di Francia. Il filosofo Alain Finkielkraut (nella foto) arriva domani alle 21 al Centro Culturale di Milano (via S. Antonio 5) per il ciclo di incontri «Riguadagnare i fondamenti», che ha già visto l’intervento della regista Margareth von Trotta e vedrà in gennaio la presenza di Jean Luc Marion. Le linee guida della sua relazione su «Ogni cosa è "avvenimento". Si può pensare e vivere così? Ripartiamo da Péguy» sono pubblicate in questa pagina. Il filosofo di Parigi, conduttore di una seguitissima trasmissione radiofonica su France Culture, sarà presentato dal giornalista Pigi Colognesi. Ingresso gratuito; info www.centroculturaledimilano.it; 02 86455162
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