sabato 5 giugno 2021
“Dialoghi con Leucò” è forse il suo testo più interessante, il suo libro sul mito e dichiaratamente “nel mito”. Lo volle accanto a sé la notte in cui si tolse la vita
Lo scrittore Cesare Pavese al lavoro

Lo scrittore Cesare Pavese al lavoro - archivio

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Dialoghi con Leucò è il libro più interessante di Cesare Pavese. Lo scrittore se lo mise accanto la notte in cui si tolse la vita. Il suo libro sul mito e dichiaratamente “nel mito”: assoluta novità nella produzione di Pavese e nella letteratura italiana. Ventisette brevi dialoghi, in cui si incontrano dèi o mortali, e affrontano i temi fondamentali della vita, della morte, del destino. Parlano in dialoghi serrati Edipo e Tiresia, Eros e Tanatos, Achille e Patroclo, Calipso e Ulisse, Circe e Leucò: cioè Leucotea, propriamente “la Dea Bianca”, una delle forme che assume l’antica misteriosa divinità femminile mediterranea, che si rispecchia nel mare. Un libro «non di mitografia ma di mitopoiesi – scrive Giulio Guidorizzi nell’introduzione dell’edizione proposta da Adelphi (pagine 230, euro 18,00) – capace di reinfiammare la materia dei miti [...]. I Dialoghi sono quindi quasi-poesia, quasi-teatro e quasi-mitologia».

Pubblicato nel 1947, creò diffidenza non solo per la struttura, lontanissima dal romanzo neorealista, ma per l’esplicita dichiarazione, da parte dell’autore, della necessità del mito per comprendere e interpretare il mondo. I Dialoghi sono il libro che Cesare Pavese amò di più, tra tutti i suoi, probabilmente quello che lo consegnerà alla sopravvivenza letteraria, ma certo fu il meno capito. Era imbarazzante, per la cultura egemone di sinistra marxista ortodossa, sentire parlare di mitologia subito dopo la guerra, in un Paese da ricostruire e da un autore come Pavese che sosteneva la letteratura militante, iscritto al Partito comunista e legato al dominante neorealismo. In effetti Pavese esordisce autogiustificandosi, attribuendo questo strano libro alla bizzarria che frequenta ogni scrittore: «Potendo si sarebbe fatto volentieri a meno di tanta mitologia ».

Ma, commenta Guidorizzi, «ma non si può, perché il mito scavalca il tempo e propone uno sconfinato materiale narrativo e simbolico». Comunque si giudichi la sua opera, Cesare Pavese era un formidabile intellettuale, di intelligenza e libertà straordinarie: aveva scoperto la realtà viva del mito in Moby-Dick, che tradusse come altre opere di Melville; era rimasto incantato, dal 1933, dalla lettura del Ramo d’oro di Frazer, saggio sul mito, il sacrificio, il rito, uno dei testi in cui si fonda la categoria di “primitivo”. Grazie alla sua passione per l’antropologia e il mito nacque per l’editore Einaudi la Collana Viola, dal colore della copertina, collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici, salutare per il provincialismo culturale di un’Italia mortificata dal fascismo. Pavese ne fu l’inventore, ma fu d’accordo con l’editore che gli affiancò uno specialista, Ernesto De Martino.

Superprofessore, supercomunista, incapace di comprendere la grandezza indisciplinata del partner. Ma nonostante i due non si amassero, la collana pubblicò autori fondamentali, ignoti i Italia. Pavese inviò i Dialoghi a De Martino con una frase di accompagnamento insolitamente timida. De Martino non gli disse mai una parola. Trovò però il coraggio di esprimersi quattro giorni dopo la morte dello scrittore: il 31 agosto 1950 scrisse all’editore una lettera in cui criticava Pavese per «certe forme di irrazionalismo scientificamente errate e politicamente sospette» e per «l’idoleggiamento del mondo primitivo, del sacro, del mito», tendenza che rappresentava «l’involuzione culturale della borghesia agonizzante». Concludeva il processo politico offrendosi di ripulire la collana da queste pavesiane deviazoni. L’editore non gli rispose. Era politicamente schierato, ma intelligente. Questo è il processo al capolavoro di Pavese da parte della cultura dominante. Ma sappia, il lettore, che anche negli anni Settanta e Ottanta, per qualche allora giovane poeta legato alla dimensione del sacro e del mito, quell’interesse era sospetto, l’argomento tabù, sintomo di mentalità “reazionaria”. Eliade era censurato come un pensatore pericoloso... Oggi non è più così. Ma nessuno, come in tutti i casi analoghi, si è pentito.

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