mercoledì 25 maggio 2022
Il cardinale Nzapalainga parla il 27 maggio al Festival Biblico a Vicenza della Repubblica Centrafricana martoriata dalla violenza: «Ma Dio non ci ha mai dimenticati»
Il cardinale Nzapalainga parla venerdì al Festival Biblico sulla situazione difficile della Rep. Centroafricana

Il cardinale Nzapalainga parla venerdì al Festival Biblico sulla situazione difficile della Rep. Centroafricana - .

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È la parola che pronuncia più frequentemente: pace. Insieme a speranza, quella con la 'S' maiuscola, più forte di ogni guerra e di ogni miseria. Qualcosa da costruire, qualcosa per cui combattere, ma con le armi del dialogo e della pazienza. «Chi spera non teme nulla», ama ripetere il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, che è in Italia in questi giorni per partecipare al Festival Biblico di Vicenza il 27 maggio e per presentare il suo libro: La mia lotta per la pace. A mani nude contro la guerra in Centrafrica (Libreria Editrice Vaticana, pagine 160, euro 15,00). «È la storia di un figlio di un Paese travagliato, nato in una famiglia povera e periferica, divenuto un leader morale, un punto di riferimento per il Paese e, ovviamente, per la Chiesa cattolica, come arcivescovo di Bangui. Non è però una storia di successo personale, ma di una grande passione per il suo popolo e per la pace».

Lo descrive così Andrea Riccardi che firma la prefazione, precisando che la sua è una vicenda emblematica non solo per il Centrafrica, ma per tutto il continente: «Mostra che è possibile lavorare gratuitamente ed efficacemente per un Paese africano». Non solo: mostra che è possibile farlo con grande coraggio, come ha testimoniato in questi dieci anni di guerra che ha destabilizzato e ulteriormente impoverito il suo Paese. «Abbiamo vissuto tempi molto difficili», ci conferma quello che è il più giovane cardinale al mondo. Classe 1967, membro della Congregazione dello Spirito Santo, è stato fatto arcivescovo di Bangui nel 2012 da Papa Benedetto XVI e cardinale nel 2016 - a soli 49 anni - da Papa Francesco, all’indomani del viaggio apostolico, in cui, proprio a Bangui, aveva aperto la Porta santa dell’anno della Misericordia. Un gesto che ha lasciato un segno: «Tutti ci avevano dimenticato. Ma Dio non ci ha mai dimenticati. E la prova è stata l’iniziativa del Papa, che non si è limitato a parlare del nostro Paese e a invitare i grandi del mondo a occuparsene, ma è venuto di persona. E facendolo, ha mostrato la tenerezza di Dio nei confronti dell’umanità ferita, dei più poveri e abbandonati, di quelli che piangono e che soffrono e che hanno bisogno di gesti di misericordia. Papa Francesco, personalmente, ha fatto questi gesti. E ha ricollocato la Repubblica Centrafricana sulla scena mondiale».

È lo stesso significato che avrà anche il prossimo viaggio del Pontefice in Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan a inizio luglio: un viaggio al cospetto di popoli feriti e abbandonati. Ma com’è oggi la situazione in Centrafrica? «Abbiamo iniziato a compiere qualche passo concreto verso la pace. Sino a non molto tempo fa, incato fatti, quasi l’80 per cento del territorio era controllato da gruppi di ribelli locali e da mercenari stranieri. Ora tutte le città più grandi sono tornate sotto il controllo del governo ». Sembrava impossibile, eppure anche per il Centrafrica si intravedono alcuni spiragli di luce farsi strada tra le ferite di un Paese calpestato e depredato da chi vuole sfruttarne le ingenti risorse o mantenersi al potere. Ancora oggi, diverse aree del Paese sono in balìa di ribelli, banditi, miliziani stranieri, terroristi islamici, nonostante la presenza di un corposo contingente Onu, ma anche del famigerato Gruppo Wagner, che molti hanno conosciuto in Ucraina, ma che è presente già da tempo in diversi Paesi africani, spesso - come il caso del Centrafrica - assoldato direttamente dal governo. «Sono state commesse molte violenze e atrocità – denuncia il cardinale –, ma adesso è un tempo propizio per guardare avanti. Dobbiamo rimboccarci le maniche, lavorare su noi stessi per riappacificare i nostri cuori, e con gli altri. Non dobbiamo generalizzare e considerare l’altro indistintamente come il diavolo. Dobbiamo ricominciare a dialogare».

È quello che ha sempre cercato di fare sin dall’inizio del conflitto, non solo come guida della Chiesa cattolica - che è rimasta in tutti questi anni un punto di riferimento fondamentale per una popolazione alla deriva -, ma coinvolgendo anche la comunità protestante e soprattutto quella musulmana in un momento in cui il conflitto stava prendendo una pericolosa connotazione religiosa. «Attraverso la Piattaforma interreligiosa, abbiamo voluto mostrare con le parole e soprattutto con i fatti, viaggiando ovunque nel Paese e sedendoci a dialogare con tutti, che noi, leader religiosi, siamo uniti e vogliamo che i nostri fratelli e i nostri fedeli facciano propria questa fraternità al fine di poter riappacificare e far crescere la Repubblica Centrafricana. La religione non è un problema, ma la soluzione. Siamo tutti figli di Abramo». Nel novembre del 2020, l’imam Kobine Layama con cui aveva fondato la Piattaforma è deceduto: «Eravamo legati da una reale fraternità – ricorda Nzapalainga nel libro –. Era un erudito di profonda umiltà. Era un uomo di Dio e un artigiano di pace». Proprio come lui.

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