martedì 7 maggio 2013
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Per molti versi, i partiti nascono «quando nelle sedi parlamentari i rappresentanti del popolo si schierano su banchi opposti». Ma ciò non significa che i partiti sorgano o che, quantomeno, sorgano esclusivamente, all’interno delle assemblee rappresentative. Significa piuttosto che l’idea di partito (in quanto parte effettivamente politica, e non come articolazione "naturale" di un ordine originario) prende forma nel momento in cui si percepisce che in gioco, e in conflitto fra loro, non sono gli organi di un corpo politico, o i ceti in cui si articola una rigida gerarchia funzionale, ma delle parti che si collocano su un terreno del tutto contingente, su una superficie di confronto e di scontro "orizzontale" (che peraltro diventa plasticamente visibile proprio all’interno delle assemblee elettive). E, dunque, le parti iniziano a mostrarsi come parti politiche proprio nel momento in cui l’ordine della gerarchia naturale è posto in discussione, e in cui lo spazio politico comincia a essere segnato dalla contingenza del conflitto e dei rapporti di forza. Non è allora probabilmente casuale che la riflessione sui partiti abbia preso forma, seppur in modo stentato, fra il tardo Medioevo e la prima età moderna, proprio in contesti segnati dall’indebolimento delle gerarchie sociali tradizionali e dall’emergere di una tendenza all’eguaglianza politica.
Nelle repubbliche italiane, un simile processo non conduce certo all’affermazione di una sovranità popolare in termini moderni, ma senza dubbio tende a collocare la res pubblica in uno spazio in cui la dimensione "verticale", propria del mondo feudale, appare quantomeno indebolita, e in uno spazio in cui le parti possono fuoriuscire dalla ferrea gerarchia dell’ordine funzionale medievale per definire il loro ruolo nel contrasto con gli altri attori della politica cittadina. E, soprattutto, non è affatto incidentale che il partito inizi a diventare una presenza costante dopo la Rivoluzione francese. Anche se la riflessione condotta nelle infuocate giornate seguite all’Ottantanove non condurrà a risultati sostanzialmente diversi per quanto concerne il ruolo del partito, è proprio in quei momenti che si frantuma definitivamente l’ordine simbolico dell’Ancien Régime, e che si delinea chiaramente lo spazio "contingente" […] in cui i partiti vengono, da quel momento in poi, a cercare una (sempre problematica) collocazione, ma in cui non riescono certo a liberarsi, se non per una brevissima stagione, della loro sinistra fama. (…) Da molti punti di vista il 1989 segna il capitolo conclusivo di una narrazione che aveva ritrovato nel partito rivoluzionario novecentesco - con la sua ferrea disciplina interna, i suoi marcati tratti ideologici, l’abnegazione dei suoi militanti - lo strumento in grado di tessere insieme l’ordito della storia collettiva e i fili sottili della redenzione individuale. Ma in quegli stessi anni inizia anche a dissolversi il mito che, in molti paesi del Vecchio continente, aveva assegnato ai partiti il ruolo di educatori, di rappresentanti della società, di moderni "principi democratici".
E così comincia davvero a prendere forma il nuovo immaginario di una democrazia senza partiti: un immaginario talvolta alimentato strumentalmente, ma comunque radicato in un’ostilità diffusa, profonda e resistente, in cui vanno a condensarsi i più robusti motivi della retorica antipolitica: da un lato l’idea che la politica e il conflitto non siano altro che espressioni di un fanatismo pernicioso per l’interesse pubblico, e, dall’altro, la convinzione per cui le insegne dei partiti, le loro più solenni dichiarazioni retoriche, le loro stesse ideologie, non sono altro che le maschere con cui occultare gli appetiti di una classe politica rapace, egoista e insaziabile. Se l’avversione nei confronti dei partiti è solo il tratto più visibile del "disagio" di cui soffrono oggi le democrazie occidentali, il discredito di cui essi sono oggetto non costituisce però un elemento inedito nella riflessione occidentale. L’ostilità nei confronti dei partiti e delle fazioni rappresenta anzi un elemento di strabiliante continuità, tanto che, prima dell’Ottocento, diventa davvero difficile ritrovare segnali, persino timidi, di una legittimazione del ruolo delle organizzazioni di parte. […] «Il partito politico etimologicamente e logicamente», scriveva d’altronde Robert Michels più di ottant’anni fa, «non è che una parte del complesso dei cittadini, organizzata sul terreno della politica», ossia «una frazione, pars pro toto». E lo stigma originario del concetto risiede, molto probabilmente, proprio nel suo richiamarsi a una parte, e nel riferirsi a una frazione che non può che apparire in irresolubile contrapposizione con il tutto. Alludendo a una frazione, l’idea di partito si scontra infatti contro quella logica fondativa dell’intera cultura occidentale, «che esalta l’unità contro la divisione, l’armonia contro la discordia, il consenso contro il dissenso».
Richiamando l’immagine della lacerazione dell’"intero", è d’altronde destinata a ricordare ogni volta come lo spazio politico sia sempre contingente, fragile, persino effimero, e come persino l’ordine all’apparenza più solido possa un giorno mostrare la propria fragilità, per l’improvvisa comparsa delle parti. Ma, forse, è proprio per il suo carattere "maledetto" che il concetto di partito si troverà a oltrepassare anche il XX secolo, e a sopravvivere al declino della forma-partito novecentesca. Perché persino la geometria dell’ordine più compatto non può che frantumarsi dinanzi all’irruzione delle parti. E perché, ancora a lungo, continueremo probabilmente a chiamare quei frammenti in cui torna  ogni volta a dividersi lo spazio contingente della politica moderna con il nome maledetto di "partito".
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