mercoledì 6 aprile 2016
Al Galidi: le parole come passaporto
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Le parole sono passaporti. Permettono di esplorare i meandri di una cultura e di entrare a farne parte. Ma danno anche l’opportunità, quando si impara a padroneggiarle, di offrire il proprio contributo per rendere più ricca una società. È questa la filosofia su cui il poeta e scrittore Rodaan Al Galidi ha basato tutta la sua esperienza, umana e artistica. Un percorso tormentato, per molti versi simile a quello dei milioni di disperati che in quest’epoca buia si accalcano alle porte dell’Europa, in fuga da un Medio Oriente senza pace.Al Galidi, nato in Iraq nel 1971, è un fuggitivo di altri tempi di guerra e terrore: negli anni Novanta, rifiutatosi di entrare nell’esercito del dittatore Saddam Hussein (che aveva sterminato metà della sua famiglia), lasciò il suo Paese con un passaporto falso e cominciò una lunga odissea in cerca di asilo, dalla Giordania alla Thailandia, dalla Malesia al Vietnam. Nel ’98 approdò infine in Olanda, la nazione che un giorno sarebbe diventata la sua patria e lo avrebbe ufficialmente dichiarato suo cittadino. Ma questo sarebbe avvenuto solo un decennio dopo. Nel frattempo, questo poliedrico artista ha vissuto per nove anni in centri di accoglienza per rifugiati, ha appreso la lingua da autodidatta, ha pubblicato vari romanzi e libri di poesie e ha imparato a conoscere e amare la cultura del continente che lo ha accolto. Oggi, ottenuti infine i documenti e la cittadinanza, è un affermato scrittore olandese, apprezzato per la sua scrittura e la capacità di analizzare con ironia e una leggerezza carica di sostanza le contraddizioni della sua nuova società, del mondo da cui proviene e della condizione umana, a prescindere dalla cultura. Una dote che gli è valsa il Premio europeo per la Letteratura per il suo romanzo L’autistico e il piccione viaggiatore, ora pubblicato in Italia da Il Sirente nella collana Altriarabi migrante (pagine 140, euro 15, traduzione S. Musilli).Da sans papier a scrittore affermato: come è riuscito a dare una svolta alla sua vita?«È stata una sfida molto dura. In Occidente hai bisogno di un documento per esistere: senza non puoi studiare né lavorare, viaggiare o andare in biblioteca e nemmeno pubblicare un libro, perché non puoi stipulare un contratto con l’editore e in ogni caso non potresti venire pagato. L’unico modo per sopravvivere è lavorare in nero. Senza quel pezzo di carta non sei un uomo, sei solo un problema. A un certo punto, però, ho realizzato una cosa: la lingua poteva essere il mio permesso di soggiorno in Europa come uomo e scrittore. Così ho cominciato a studiare l’olandese per conto mio e presto ho iniziato a scrivere. Ho pensato che la letteratura sarebbe stata il mio documento qui, e alla fine è stato davvero così, in alcuni casi in senso letterale: una volta dovevo andare in Belgio come ospite in un Festival letterario e alla frontiera non volevano farmi entrare nel Paese perché non avevo il passaporto, ma quando ho mostrato alla funzionaria il mio ultimo libro, alla fine mi ha lasciato passare».Nel suo romanzo racconta la storia di un ragazzo autistico, che deve imparare a integrarsi con il resto della società: si tratta anche di una metafora dell’esperienza della migrazione?«È così. A volte noi migranti o rifugiati siamo come muti e immobili: arriviamo con il nostro bagaglio di cultura, fede, tradizioni, gusti e fatichiamo ad aprirci alla diversità. Invece dobbiamo imparare a rinunciare a qualcosa di noi per adattarci al nuovo contesto che ci ha accolti. Per esempio, in alcune culture la religione coincide con la vita, mentre qui in Europa essa ne rappresenta solo un aspetto. Similmente, la concezione della donna è differente, ed è chi arriva che deve adeguarsi. Se vengo in Italia, non posso pretendere di cambiare la pizza napoletana o le lasagne, ma devo modificare il mio stomaco per apprezzare il vostro cibo. Tuttavia, c’è un modo di incidere sul contesto che ci accoglie: non certo la violenza ma l’arte, la buona musica, la letteratura. Su questo ho sempre trovato porte aperte».L’Europa sta affrontando la sfida di un flusso straordinario di richiedenti asilo: come giudica la sua reazione?«L’Europa fa la guerra lontano da casa, ma quando la guerra si avvicina ai suoi confini pensa solo ad alzare muri. Intendo dire che l’Occidente ha parecchio a che vedere con la nascita delle crisi che hanno originato il flusso di profughi: in Libia gli Usa e la Francia hanno cacciato Gheddafi, ma ora c’è il caos e in più i confini sono aperti; in Iraq ci si è liberati di Saddam Hussein ma si è totalmente destabilizzato il Paese favorendo la nascita del Califfato, con il conseguente esodo di popolazione. In Siria, per anni si è fatto il gioco degli islamisti e ora si è riluttanti a intervenire per sgominare l’Isis, ma solo così si può risolvere all’origine il problema dei richiedenti asilo».Lei ha fatto esperienza di un continente accogliente o chiuso?«I rifugiati hanno un posto nel cuore dell’Europa – nel senso che i bimbi che affogano sui barconi scuotono l’opinione pubblica – ma non nella sua testa: non c’è una volontà razionale di accoglierli. Ogni profugo è visto come un problema economico, sociale, culturale, religioso. Detto questo, in qualunque centro di accoglienza olandese sono stato trattato meglio che nell’Iraq di Saddam Hussein, e in modo molto più umano che negli altri Paesi extraeuropei dove ho richiesto asilo: altrove ero come una bestia, ma sono arrivato qui e mi sono ritrovato sotto una doccia, non potevo essere picchiato, non ero chiuso in una cella con i criminali. L’unico luogo dove l’uomo è trattato davvero in modo umano è l’Occidente. Non certo l’Arabia Saudita o l’Iran».Ma l’identità europea è ancora vitale e in grado di includere?«Qui si rispettano i diritti, ma si tende a pensare solo a sé. Non solo. Mi sembra che oggi l’Europa sia più interessata all’economia che alla sua identità. Invece di Picasso o Michelangelo, di Goethe o Rembrandt, abbiamo l’euro. La prima preoccupazione è il benessere economico: con l’identità non puoi fare la spesa al supermercato. Anche se poi, alla fine, c’è uno stile di vita così frenetico che questo benessere non riusciamo nemmeno a godercelo. E intanto rischiamo di dimenticarci il vero patrimonio di questa terra: i suoi valori e la sua cultura».
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