venerdì 18 marzo 2022
In “Elefanti bianchi” lo scrittore riunisce un paio di romanzi brevi nella loro stesura integrale, ai quali si aggiungono estratti da opere inedite più ampie o rimaneggiamenti
Lo scrittore Ferruccio Parazzoli

Lo scrittore Ferruccio Parazzoli - Siciliani

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Probabilmente Ferruccio Parazzoli lo sa, anche se non lo dice: in inglese l’espressione white elephant, “elefante bianco”, viene adoperata per indicare un regalo non necessariamente sgradito, ma del quale non si sa bene che cosa fare. E siccome quella di ricevere un dono inservibile è esperienza abbastanza comune, capita che nei Paesi anglosassoni si organizzino feste durante le quali gli elefanti bianchi passano allegramente di mano in mano. Quello che non serve a qualcuno può sempre tornare buono per qualcun altro, no? Specialmente quando si tratta di manufatti dalla foggia bizzarra, il cui impiego risulta oscuro. Un po’ come le sequenze narrative (un paio di romanzi brevi nella loro stesura integrale, ai quali si aggiungono estratti da opere inedite più ampie o rimaneggiamenti di prove narrative già pubblicate in passato) che Parazzoli ha deciso di raccogliere nelle settecento pagine abbondanti di un libro intitolato, non a caso, Elefanti bianchi (il Saggiatore, pagine 712, euro 25,00). In effetti, la spiegazione offerta dall’autore non coincide esattamente con quella fin qui suggerita. Il lettore, sostiene Parazzoli, deve vedersela con un «fantomatico branco di esemplari che il tempo di chi li ha creati non potrebbe contenere ». Nel racconto omonimo, poi, la «fila di elefanti bianchi che si tenevano uniti per la coda con le proboscidi alzate» appare istoriato sul manico del tagliacarte che il protagonista scorge sul comodino della moglie. Di nuovo un regalo, a quanto pare. Ma un regalo insidioso, di cui si ignora la provenienza. Un indizio di infedeltà, forse o più modestamente il segno dell’estraneità che perseguita tante delle coppie descritte da Parazzoli in questo regesto enigmatico e poderoso. Ma se nell’ordinata tessitura romanzesca di Cambiarvita la distanza tra i coniugi risulta irrevocabile (lui è un magistrato in pensione che, non contento del successo conseguito come giallista, insegue il sogno della piena emancipazione da sé), ecco che in A un bambino sconosciuto la riconciliazione avviene perfino oltre la morte, per la mediazione di un figlio sacerdote che perdona nel padre la colpa inconfessata della madre. Con il passare del tempo, Parazzoli – 86 anni compiuti, una cinquantina di romanzi all’attivo, una carriera di dirigente editoriale che sconfina del leggendario – si è fatto sempre più recalcitrante alla definizione di “autore cattolico” solitamente riservatagli. Eppure non c’è dubbio che la sua scrittura nasca da un impulso di insubordinazione metafisica, dalla volontà ostinata di non adeguarsi a una letteratura imprigionata nello spazio «dai tetti in giù», per riprendere una formula sulla quale lo stesso Parazzoli ha molto riflettuto. Del resto, anche all’interno di Elefanti bianchi, testi come Ultima cena e Vatican Blues danno prova di un corpo a corpo con l’immaginazione del cristianesimo, ora nella chiave di una delirante sceneggiatura cinematografica (c’è di mezzo un Pasolini apocrifo, alle prese con un Vangelo più apocrifo ancora, nel quale è Barabba a finire in croce, mentre Cristo sconta la condanna all’anonimato), ora mediante una virtuosistica riscrittura di un celebre episodio dei Miserabili. Oltre per la misura dello stile, tanto più ricercato quanto più inavvertito nell’apparente naturalezza della prosa, è in virtù di questa irrequietezza spirituale che Parazzoli può essere considerato il maestro di una generazione di scrittori in nome della quale, nell’ampia prefazione a Elefanti bianchi, prende la parola Helena Janeczek. La Milano labirintica di piazzale Loreto e dintorni, il ripresentarsi di oggetti e situazioni (la grande spada della guerra di Libia, la panchina costruita con le proprie mani, come per sfida), perfino l’ossessiva ricorrenza di nomi e cognomi (Diomira, Lunghini, fino all’apoteosi dell’improbabile premio Nobel Walter Beltramin, che non solo per assonanza ricorda Benjamin e il suo “angelo della storia”) sono alcuni degli elementi messi in risalto da Janeczek in un’analisi che non può fare perno se non sul tema del fallimento. Nella sua compattezza, infatti, Elefanti bianchi è un libro che tende inesorabilmente al frammento, all’elusiva ieraticità dell’incompiuto. Si pensi al diario slabbrato di A casa dopo mezzanotte e più ancora alla contaminazione saggistica di Apologia del naufragio, quasi una dichiarazione di poetica che rende conto dell’intera scommessa narrativa e umana di Parazzoli. «Scrivere è un’attività fallimentare – si legge altrove nel volume –. La cosiddetta grandezza che si usa attribuire ad alcuni scrittori definiti immortali è solo un’altra immaginetta, una delle tante cui l’umanità non può rinunciare se vuole sopravvivere infilando un giorno dopo l’altro, un risveglio dopo l’altro, nel vuoto chiarore del mattino». L’unica obiezione che Parazzoli muove a questa rassegnazione radicale corrisponde all’attesa della risurrezione della carne, magari come la rappresenta Luca Signorelli negli affreschi per il Duomo di Orvieto «Ricordo tutti i corpi della mia vita, anche il mio corpo di bambino, di mia madre, di mio padre, è loro che voglio resuscitare, è con loro che voglio tornare a vivere». Il resto non conta, è un regalo del quale non ci si dà ragione e che si condivide con gli altri nel dubbio di non aver compreso o, peggio ancora, di non essere compresi.

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