giovedì 5 maggio 2016
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Lo scrittore Denis de Rougemont affermava spesso che la crisi del matrimonio data da quando si cominciarono a fare matrimoni d’amore. Era una battuta, naturalmente, ma allo stesso tempo lo spunto per una seria riflessione sulla complessità delle mutazioni in atto (cambiamento di mentalità, di paradigmi sociali, di regimi di esistenza, ecc.). Possiamo certo sempre convenire, anche a proposito dell’amore, sul fatto che chi inventò la barca inventò anche il naufragio. Ora, la tentazione potrebbe essere semplicemente quella di tornare indietro, cercando la soluzione nella restaurazione di un codice o di un modello rigido, e sostituendo l’amore con un fondamento meno problematico. La situazione di emergenza che viviamo oggi (in un Paese come il Portogallo, per fare un esempio, nel 2013 si sono registrati 70,4 divorzi per 100 matrimoni) sembrerebbe dare ragione a questa tentazione. Grazie a Dio, il pensiero di papa Francesco non è questo. Nell’importante esortazione pubblicata un mese fa, l’amore non compare solo nel titolo: è nominato più di trecento volte, divenendo così il centro della sua articolata riflessione. La presentazione ufficiale del documento nella Sala Stampa del Vaticano è stata compito del cardinale di Vienna, il domenicano Christoph Schönborn, che ha affrontato questo aspetto senza giri di parole: «Papa Francesco crede nell’amore, nella forza attraente dell’amore, e per questo può essere abbastanza sfiduciato, critico, nei confronti di un atteggiamento che vuole regolare tutto con delle norme, di chi pensa che basti accordarsi alla norma. No, dice il Papa: “Questo non attira; ciò che attira è l’amore”». Ciò detto, va riconosciuto che il discorso di Bergoglio è tutto meno che riduttivo o evasivo. Abbiamo qui uno dei momenti che rimarrà tra i più emblematici del suo coraggioso pontificato. Di tale testo insolitamente esteso (nove capitoli per un totale di oltre trecento paragrafi), fatto che già di per sé rivela l’estrema cura e anche la difficoltà che il trattamento di questi temi impone, ci azzardiamo a evidenziare tre questioni che hanno a che vedere con il metodo. Sicuramente quello che il Papa dice è fondamentale, e il documento è lì per diventare oggetto di un’ampia ricezione, ma anche il modo in cui lo dice costituisce un atteggiamento e un programma. 1) Una innovazione metodologica del Concilio Vaticano II, soprattutto di quella magna carta del cattolicesimo contemporaneo che è la Gaudium et spes, è l’introduzione di un discernimento della realtà a due tempi, poiché si parla non solo delle ombre ma anche delle luci, che indicano un progresso e una positività. È un approccio nuovo, entrato nei documenti magisteriali successivi e che corrisponde a uno sforzo di lettura della vita nella sua complessità. Tale schema viene mantenuto nell’Amoris laetitia, ma con un ulteriore passo avanti: la Chiesa, tramite la voce autorevole del Papa, non promuove unicamente un’analisi critica dei temi sul tappeto, ma sviluppa una onestissima autocritica del proprio contributo storico. 2) Nel documento è accolto con audacia un richiamo che era emerso nei gruppi di lavoro del Sinodo, ossia il riconoscimento che il modo di pensare della Chiesa è frequentemente troppo statico e tiene poco in considerazione la dimensione biografica dei percorsi di fede. Francesco così scrive: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale». E chiede con insistenza di ricordarci di una cosa che Tommaso d’Aquino, il teologo più citato in tutta l’Esortazione, insegna: «Quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione». E l’indeterminazione non è un incidente di percorso, bensì una componente della vita con cui bisogna fare i conti. 3) Il documento è in sé stesso un saggio di linguaggio nuovo, con il suo privilegiare il modello narrativo e il collegamento con l’esperienza, con la trama del vissuto, con la quotidianità, invece di proporre un discorso astratto. Ne sono un sintomo curioso le citazioni stesse, che entrano nel vivo di un’antropologia enunciata non solo in termini dottrinali ma attraverso poeti (troviamo citati Jorge Luis Borges e Mario Benedetti), cineasti ( Il pranzo di Babette di Gabriel Axel) o leader spirituali non cattolici (Martin Luther King e Dietrich Bonhoeffer). © RIPRODUZIONE RISERVATA Chiamate in attesa
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