mercoledì 5 dicembre 2018
Concilio Vaticano II e contestazione condividono spinte e motivi di fondo. Ma gli sviluppi di entrambi segnarono eccessi, a cui Montini reagì con razionalità
Il 15 settembre 1968 un gruppo di giovani cattolici contestatori occupano per poche ore la cattedrale di Parma chiedendo alla Chiesa «il coraggio di scelte a favore dei poveri e contro il sistema capitalistico»

Il 15 settembre 1968 un gruppo di giovani cattolici contestatori occupano per poche ore la cattedrale di Parma chiedendo alla Chiesa «il coraggio di scelte a favore dei poveri e contro il sistema capitalistico»

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Quale fu l’atteggiamento di Paolo VI rispetto al Sessantotto? Alcuni discorsi pronunciati all’udienza generale del mercoledì nei mesi successivi alle proteste di maggio ci aiutano a capire la sua posizione. Il 15 gennaio 1969, ad esempio, il pontefice diceva: «L’età nostra segna una stagione storica di grandi cambiamenti e di profondo rinnovamento, che toccano ogni forma di vita: il pensiero, il costume, la cultura, le leggi, il tenore economico e domestico, i rapporti umani, la coscienza individuale e collettiva, la società intera». Montini poi specificava che «l’attuale generazione è come inebriata da questa mutazione», notando però in questa frenesia di cambiamento il manifestarsi di «segni di impazienza e di intolleranza ». L’esaltazione della novità fine a se stessa portava a dimenticare il passato e ad abbandonare la tradizione in toto: «Così si parla sempre di rivoluzione, così si solleva in ogni campo la contestazione, senza spesso che ne sia giustificato né il motivo, né lo scopo». Poche settimane dopo, il 5 marzo, il papa cambiava i toni e ribadiva la visione positiva e ottimistica del mondo espressa dal Concilio: il mondo non è da intendere come il regno delle tenebre e del peccato, ma va identificato con l’umanità, e di fronte a esso la Chiesa «non evade, non si estranea dalla situazione esistenziale del mondo». Rivolgendosi poi ai fedeli il 10 settembre di quell’anno, riconosceva «il fondo di bontà che c’è in ogni cuore; conosciamo i motivi di giustizia, di verità, di autenticità, di rinnovamento, che sono alla radice di certe contestazioni, anche quando queste sono eccessive, ingiustificate e quindi riprovevoli», soprattutto «quelle dei giovani partono per lo più da reazioni e da aspirazioni che meritano considerazione e obbligano a rettificare il giudizio dell’etica sociale, viziato da abusi inveterati e al giorno d’oggi insostenibili».

Leggendo queste e tante altre prese di posizione, si comprende come la riflessione di Paolo VI sia stata meditata e articolata. Da un lato egli cercava di valorizzare le giuste istanze di cambiamento, nella società e nella Chiesa, dall’altro si premurava di sottolineare come il processo di riforma non dovesse mai tralignare nel rigetto totale della tradizione o assumere forme violente. Le sue parole non sono mai dure o intransigenti, ma partecipi e a volte sofferte. In ogni caso, in lui nessun tentennamento, come qualcuno ingiustamente ha rilevato. Anche quando, alcuni anni più tardi, probabilmente addolorato per la rottura lefebvriana ed esasperato per alcune spinte del dissenso cattolico che arrivavano a mettere in discussione le fondamenta stessa della Chiesa, alluse al «fumo di Satana» che aveva portato incertezza, buio e tempesta all’interno del «tempio di Dio», egli non abbandonava il concetto di Ecclesia semper reformanda. La posizione di Montini rispetto al maggio ’68 e al postConcilio è assai ben ricostruita nel volume Chiesa contestata, Chiesa contestante. Paolo VI, i cattolici e il Sessantotto, appena pubblicato da Stefano Tessaglia per i tipi di Queriniana (pagine 282, euro 22,00; prefazione di Maurilio Guasco). Si tratta di un saggio storico-teologico che, senza operare un collegamento diretto, ci fa capire come il rapporto fra cattolici e ’68 sia stato determinato dalle aperture del Vaticano II: «Sebbene siano profonde – scrive l’autore – le differenze che separano circostanze prettamente ecclesiali, come l’applicazione di un concilio e le necessarie riforme, da fenomeni sociali, quali la contestazione operaia e le proteste studentesche, occorre rilevare una certa sovrapposizione fra i due movimenti».

È del resto innegabile la partecipazione dei cattolici al Sessantotto, così come i contenuti della protesta sono in gran parte desumibili da quanto emerso dal Concilio: l’aspirazione all’uguaglianza e alla giustizia, la messa in discussione di modelli autoritari e la richiesta di una partecipazione comunitaria, la condivisione con i poveri e gli emarginati, l’apertura verso il Terzo mondo. Il volume ripercorre vari eventi che scossero la società e la Chiesa italiana, dall’occupazione dell’Università Cattolica nel novembre 1967 alle proteste alla facoltà di Sociologia di Trento che videro protagonisti gli studenti cattolici, fino a gesti clamorosi come l’occupazione del Duomo di Parma. «Questo multiforme e complesso processo – scrive Tessaglia – non ebbe come esito immediato l’allontanamento dalla fede o da modelli di vita cristiani», anzi la spinta propulsiva era proprio il desiderio di un radicamento reale nel Vangelo e nella distanza dal potere, in nome del pauperismo. Così, il cardinale Pellegrino, arcivescovo di Torino, quando 150 operaie di una fabbrica occuparono una chiesa, disse: «Se hanno scelto la chiesa preferendola a una sede sindacale o di un partito perché convinti che la Chiesa è dei poveri, il loro gesto ci conforta. Cristo si sente più onorato dalla presenza di persone che riversano pene e reclamano riconoscimenti di diritti che dal silenzio dovuto all’assenza di gente». Sulla stessa linea Adriana Zarri: «Non ci lamentavamo delle chiese vuote e ci lamentiamo delle chiese occupate, non ci lamentavamo del disinteresse e ci lamentiamo della contestazione appassionata. Forse non meritiamo questo fenomeno stupendo e meriteremmo che tutto tornasse come prima: grigi fedeli devoti e assenti, che naufragano nel disinteresse generale. Staremmo tutti più tranquilli. Saremmo tutti più morti». Sulla scia del Concilio, si invocava una Chiesa che seguisse il modello delle Beatitudini, una Chiesa che stesse dalla parte dei poveri, degli oppressi e dei perseguitati. Ovvio ricordare che questi fermenti portarono pure a numerosi eccessi, quelli che fecero preoccupare Montini, sino all’abbandono della fede cristiana da parte di molti, anche preti, che scelsero l’impegno sociopolitico esclusivo. Tessaglia distingue tre fasi del dissenso ecclesiale: una prima, subito dopo il Concilio, la cui problematica è tutta interna alla Chiesa; una seconda, dopo il ’68, in cui prevale la politicizzazione e inizia la critica alla Chiesa vista come luogo di potere; una terza, dopo il 1970, che vede nascere i movimenti delle comunità di base e dei cristiani per il socialismo.

Nel 1968 il Vaticano II si era concluso da solo tre anni e la Chiesa cattolica era impegnata in un processo di riforma che è giunto fino a oggi. Inutile negare che vi furono ritardi, incomprensioni, fughe in avanti, come il cedimento di alcune correnti teologiche e di alcuni movimenti di base verso l’ideologia marxista. L’aveva ben capito Oscar Romero che nel 1965, alla chiusura del Concilio, scrisse: «La Chiesa è in un momento di aggiornamento, cioè di crisi della sua storia. E come tutti gli aggiornamenti emergono due forze antagoniste: da una parte un affanno smisurato di novità, definito da Paolo VI “sogni arbitrari di rinnovamenti artificiosi”; e dall’altra parte, un attaccamento all’immobilità delle forme rivestite dalla Chiesa lungo i secoli e il rifiuto dell’indole dei tempi nuovi. I due estremi peccano di esagerazione».

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