venerdì 29 marzo 2013
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​All’inizio, all’epoca dell’esordio con La grande Eulalia (1988), c’è stata l’esplorazione dell’inconscio, l’avventura a ritroso nelle regioni del mito e del mistero. Poi, libro dopo libro, la ricerca di Paola Capriolo si è fatto sempre più articolata e complessa. Ad affermarsi con chiarezza è stata in particolare la condizione della vittima, che assume un ruolo centrale in titoli recenti quali Io come te (EL, 2011) e Caino (Bompiani, 2012): un lungo racconto per ragazzi e un romanzo accomunati, fra l’altro, dal fatto che a portare il peso della sofferenza è un immigrato, uno straniero, un essere umano lasciato ai margini dalla società. «Questa è una realtà che mi colpisce profondamente – confessa la scrittrice –. Penso alla sorte delle persone stipate sui barconi, cerco di immedesimarmi nella vastità di un dolore che nasce nella povertà e finisce per condurre all’esclusione, come avviene a tanti migranti nelle nostre città. Sono loro, adesso, a stare sulla Croce. Cristo oggi ha il volto dello straniero».Un Venerdì Santo nella prospettiva dell’emergenza sociale?«Non è così semplice. Vede, quello della sofferenza è un tema universale, eterno. E lo è ancora di più nella declinazione caratteristica del cristianesimo, per cui nella vulnerabilità dell’uomo è dato di riconoscere una traccia del divino. Pur non essendo credente, mi sento molto vicina a questa sensibilità, che ci invita a soffermarci sulla nostra condizione di creature. Ci troviamo davanti a un’idea dalla forza immensa, tale da capovolgere la storia e il pensiero dell’umanità. Il Venerdì Santo è il momento decisivo di questo processo, è la data in cui il messaggio cristiano si dispiega con tutta la sua forza, con tutta la sua novità. L’Incarnazione si compie fino in fondo sulla Croce, Dio diventa veramente uomo perché diventa vittima. Perché accetta di spogliarsi della sua potenza per presentarsi inerme, indifeso, impotente».Molti, anche tra scrittori e filosofi, hanno respinto questa radicalità.«Ma molti, al contrario, hanno saputo rappresentarla in tutta la sua crudezza. Per me continua ad avere un ruolo fondamentale la lettura di Dostoevskij, in particolare dell’<+corsivo_bandiera>Idiota <+tondo_bandiera>. Il protagonista, il principe Myskin, è un personaggio di forte connotazione cristologica. Il suo Venerdì Santo si compie nelle ultime pagine del romanzo, quando insieme con Rogozin veglia sul corpo senza vita di Nataša, la donna che Rogozin stesso ha ucciso. Un atto di impotente misericordia, al Myskin si dedica sapendo che, in un momento così atroce, non si può fare altro che rimanere lì, prendere parte a quel dolore. Anche a costo di esserne annientati».Non c’è il rischio di essere travolti dal nulla della morte?«Non sono credente, lo ripeto. Eppure sono convinta che, se nel Venerdì Santo non si sprigionasse una negatività così assoluta, la Risurrezione stessa sarebbe impossibile. Nella concezione classica, che trova la sua espressione nel mito, il divino è qualcosa di originario, che sta prima dell’uomo e, nel migliore dei casi, può intervenire per portare la salvezza dall’esterno. Il cristianesimo, invece, si fonda su un germe nascosto di redenzione, che appartiene già al mondo. Non mi riferisco a una fede nell’immanenza del divino, quanto piuttosto a uno sguardo che, anziché soffermarsi sul “prima” dell’origine, si spinge a contemplare il “dopo”, il futuro. Per il cristiano Dio è sempre qualcosa a cui si tende e che trova compimento nell’uomo. Ma perché questo accada occorre attraversare la desolazione del Venerdì Santo, occorre sopportare un male tanto assoluto da escludere ogni via d’uscita. A quel punto non c’è che un’unica soluzione, paradossale e necessaria: la Risurrezione, appunto».Sbaglio o sono temi che lei ha studiato anche dal punto di vista teologico?«Trovo molto appassionante il dibattito che la Chiesa ha affrontato nei primi secoli della sua storia, nella stagione dei Concili. Anche allora l’idea che Cristo avesse patito davvero la morte sulla Croce risultava intollerabile, diverse eresie volevano negare un evento che risultava, e risulta, pressoché ripugnante alla logica umana. La Chiesa, però, è rimasta salda nel proclamare la verità del Venerdì Santo ed è stata questa decisione grandiosa a fare del cristianesimo quello che è ancora oggi. È grazie a questa consapevolezza che possiamo riconoscere in ogni sofferenza la sofferenza di Cristo».
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