venerdì 15 maggio 2009
«Ho sbagliato sul caso Montanari, il pentito del Triangolo rosso. Per Calabresi invece ho le carte pulite, anche se l’ho difeso poco» «Il revisionismo è un metodo storiografico, ma prima ancora un precetto civile. A cosa vorrei applicarlo? Alla fine del Pci e alle stragi»
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«Non si può cantare in tutti i cortili». Gira e rigira, la morale po­trebbe ridursi qui: alla vecchia massima di nonna Caterina Zaffiro vedova Pansa, che al bambino Giampaolo insegnava di non iscri­versi ad alcun partito preso. Oppu­re – più nello specifico – ai 4 prin­cipi del revisionista resistenziale: 1) le vendette dei vincitori sono state così sanguinarie da sporcare senza rimedio la buona causa dei partigiani; 2) la buona causa della Resistenza non fu la bandiera di tutti i partigiani, qualcuno com­batteva per altri fini; 3) i fascisti della Repubblica Sociale non era­no tutti mostri, carnefici, tortura­tori; 4) non si può descrivere una guerra civile ascoltando solo la vo­ce di chi ha vinto. Ma c’è caso che il nuovo libro del giornalista pie­montese, in uscita il 20 maggio, non procuri i soliti «mal di Pansa» soltanto alla sinistra. Il revisionista (Rizzoli, pp. 484, euro 22), nel suo intento di rinvenire nell’autobio­grafia dell’autore le tracce contro­corrente fin dalla più precoce in­fanzia, rischia infatti di offrire il fianco ancor più scoperto ai già molti nemici; che presumibilmen­te andranno presto a cercare epi­sodi a smentita. Non che Pansa se ne faccia un cruccio, e non solo per la consolazione di centinaia di migliaia di copie vendute con la sua serie di libri sulla guerra civile italiana, che dura con cadenza an­nuale dal 2003: «A 73 anni e dopo 40 di giornalismo sono diventato sovranamente in­differente a tutte le etichette che mi vogliono mettere addosso. L’unica che rifiuterei è d’essere falsario o terrorista. Per il re­sto c’è spazio». Anche per l’accusa di revisionista? «Ma certo! All’ini­zio mi dava un po’ fastidio, come quando mi chiamavano "rovesci­sta"... Per definirmi avevo inventa­to il termine un po’ burocratico di "completista". Ma mi è passata presto, tanto che uso il revisioni­smo quale vanto fin dal titolo del libro, e per due motivi: il primo è prendermi beffa dei trinariciuti, le vestali delle bugie che la sinistra ha costruito per decenni intorno alla cosiddetta guerra civile; il se­condo è fare omaggio alle moltissi­me persone che mi sono grate per aver dato loro voce». Però sembra passata l’epoca in cui tiravano le pietre ai revisioni­sti... «È vero, ormai esiste un’opinione pubblica sempre più maggioritaria che richiede storie della nostra "guerra interna" più vere ed equili­brate. Ma intanto le pietre (spero solo verbali) continuano a tirarle: il film sul Sangue dei vin­ti ora nelle sale, per da­re un’idea, è uscito solo in 40 copie, mentre il Bellocchio di Vincere ne ha in circolo 300... E in una sala di Roma do­ve si proiettava il mio film c’è stato un assalto dei centri sociali. No, non è per niente como­do fare il revisionista neppure oggi e soprat­tutto non vedo in giro esempi che possano affiancarmi, come sarei felice che avvenisse. L’egemonia culturale comunista e­sisteva eccome, e dura ancora pur se il partitone rosso non c’è più». Comunque i revisionisti passano per essere destrorsi, perciò oggi che vincono le destre dovrebbe essere campo aperto per loro. «Le destre? Ma se l’unico partito che dovrebbe fare una revisione della guerra civile, ovvero quello di Fini, di quei tempi non ne vuole più sentire nemmeno parlare!». Lei riferisce che un professore, all’università, giudicò il suo meto­do secondo un principio giuridi­co: «Audiatur et altera pars», a­scoltare anche la parte avversa. «L’essenza del revisionismo è pro­prio questa e tale principio posso dire di averlo sempre avuto in te­sta. Si tratta di un metodo storio­grafico, ma prima ancora di un precetto civile. Quando ho comin­ciato a fare il cronista, il capore­dattore mi esortava a parlare sem­pre con persone di opposte vedu­te, sennò non avrei mai capito la verità dei fatti. Si tratta di un prin­cipio che ho cercato di applicare». Qualche errore però l’ha commes­so, e lo ammette anche nel libro: una debole difesa del commissa­rio Calabresi, un articolo contro Otello Montanari – il comunista «pentito» del triangolo rosso... «Nel caso Montanari ho sbagliato, certo, ma nel volume cerco di spie­gare perché: mi lasciai influenzare da una dietrologia politica. Sul ca­so Calabresi invece non solo ho le carte pulite, ma pure le mani net­te: non ho firmato il proclama di giornalisti e intellettuali contro di lui». E sul terrorismo in generale, quando lei lavorava a «Repubbli­ca » che ammiccava alle Br?«Fui sempre contro il terrorismo, posso smentire chiunque dica il contrario. Tanto che il vero scoop della mia vita è stato dimostrare che le Br esistevano e che erano rosse. E l’Unità e l’Avanti mi accu­savano di essere visionario». Dopo la Resistenza, su quale pe­riodo della storia italiana è urgen­te fare revisionismo, secondo lei? «La storia dei motivi per cui è fini­to il Pci: la svolta della Bolognina viene così a caso? Occhetto era tanto lungimirante da cambiare il nome del partito poco dopo la ca­duta del Muro? Che cosa si na­scondeva davvero nel corpo del partitone? Altro grande argomen­to: le stragi. Su Bologna dobbiamo accontentarci della versione attua­le, che fa sempre più acqua? E piazza Fontana?». Dunque il prossimo libro sarà «Il complottista»?«No no, sarà un’altra cosa sulla guerra civile, ho già in mente co­sa ». Sembra che le donne siano più «revisioniste» degli uomini. Con­ferma? «Hanno memoria più forte. Delle 2500 lettere ricevute dopo Il san­gue dei vinti, almeno l’80% erano di donne. Non solo perché l’Italia è anagraficamente delle vedove, ma perché il mondo femminile ha più cura dei ricordi familiari». Cosa ha portato di buono il revi­sionismo all’Italia? «Ha insegnato che non si deve cre­dere a verità presentate come una rivelazione. Non fidatevi, ragiona­te con la vostra testa, documenta­tevi. Poi tirate le conclusioni». Allora certe destre, che fondano tutto su promesse e immagine, dovrebbero aver paura di lei... «Infatti alcuni dei loro capi non mi amano affatto». I revisionisti sono dissacranti, lei sostiene. Dunque i cattolici non possono esserlo? «Sul Padreterno certamente no, ma su come lavora la Chiesa asso­lutamente sì. Anzi, un cattolico non solo può, ma deve mettere in questione le vulgate di chi detiene le leve del potere. E, a proposito del dovere di sentire l’altera pars: i cattolici lo fanno molto spesso».
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