mercoledì 5 ottobre 2016
Un saggio su PALMIRA, metropoli meticcia
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Obiettivo giusto, purtroppo. Non solo un capolavoro dell’arte antica, e quindi opera “idolatrica” per definizione secondo la propaganda di Daesh, ma anche simbolo del cosmopolitismo che il sedicente Califatto si propone di sradicare. Ecco che cos’era il tempio di Bel, il grandioso edificio che sovrastava le rovine dell’antica Palmira e che nell’agosto del 2015 fu brutalmente distrutto dall’avanzata del fondamentalismo armato. Una vicenda che ora viene ripercorsa con estrema competenza e coinvolgente eleganza narrativa dallo storico francese Paul Veyne in un libro piccolo e prezioso ( Palmira, traduzione di Emanuele Lana, Garzanti, pagine 106, euro 15,00). Un erudito instant book, si potrebbe definirlo, dato che il grande studioso del mondo greco-romano lo ha scritto sotto l’impatto delle notizie in arrivo dalla Siria, scegliendo di dedicarlo alla memoria dell’archeologo responsabile del sito, Khaled al-Asaad, passato per le armi dai miliziani di Daesh negli stessi giorni in cui il tempio di Bel veniva demolito.  Nel frattempo, Palmira (o, meglio, Tadmor, secondo la denominazione ufficiale che riprende l’originario to- ponimo aramaico) è stata riconquistata dalle truppe siriane e l’inventario dei danni è stato redatto in modo più accurato e comunque sconfortante. Non per questo il contributo dell’ottantaseienne Veyne – autore di ricerche illuminanti sulla vita quotidiana nella Roma imperiale, ma anche sul pensiero di Michel Foucault – ha perso di attualità, così come rimane utilissima un’altra pubblicazione uscita in Italia già lo scorso anno, a ridosso degli eventi, grazie alla tempestività dell’editore riminese Guaraldi. L’illustratissimo Bel/Palmyra. Hommage di Manar Hammad (testo in italiano e francese, pagine 184, euro 39,00, disponibile su richiesta) mostra infatti le immagini del tempio di Bel prima e dopo la distruzione, proponendo un’interpretazione semiotica dei vari reperti, in una prospettiva multiculturale che oggi si avvicina molto a quella proposta da Veyne. «Le civiltà non conoscono patria e hanno sempre ignorato le frontiere politiche, religiose o culturali che separano i gruppi umani», avverte infatti l’antichista nel pieno della rievocazione di quella che è stata spesso definita “la Venezia delle sabbie”. Come la città lagunare, al suo apice Palmira fu anzitutto una repubblica commerciale, oasi carovaniera collocata su una rotta strategica lungo la quale non viaggiavano soltanto merci molto ricercate (prima fra tutte la seta), ma anche mentalità e usanze, in modo da dare luogo a un meticciato culturale di formidabile complessità. Dal punto di vista linguistico, per esempio, il ricorso al greco come lingua di scambio non soppiantò mai l’utilizzo dell’aramaico. Allo stesso modo, l’annessione all’Impero romano, consumatasi già nei primi decenni del I secolo, non significò l’abbandono delle tradizioni precedenti, al punto che – come osserva Veyne – in molte iscrizioni funerarie non è l’incarico pubblico ricoperto dal defunto a essere richiamato come elemento distintivo, ma la sua appartenenza a un determinato gruppo familiare. Gli abitanti di Palmira vestivano abiti di foggia orientale e si consideravano dispensati dal divieto di portare armi al quale dovevano altrimenti sottostare i cittadini dell’Impero. Sacrificavano agli dèi di un pantheon molto allargato, ma in città era presente una comunità ebraica tanto ampia quanto perfettamente integrata con le altre professioni religiose. «La modernizzazione avvenuta integrando usanze straniere gioca un ruolo nella storia ancora più importante del nazionalismo », osserva Veyne, aggiungendo che «la cultura altrui è accolta non in quanto straniera, bensì come il vero modo di fare, di cui non si può lasciare il privilegio allo straniero, che ne è soltanto il primo possessore». È da queste premesse di cosmopolitismo estremo che tra il 270 e il 272 muove il fallimentare tentativo di conquista dell’impero messo in atto dalla regina palmirena Zenobia a vantaggio del figlio Wahballat: un percorso dalla periferia al centro sorretto dalla consapevolezza che anche quella periferia è, a suo modo, centrale per gli equilibri dell’epoca. Anche il tempio di Bel, del resto, rispettava solo esteriormente i canoni dell’architettura classica, ma l’ingresso era eccentrico rispetto ai modelli, il tetto non rispettava i canoni, perfino le colonne erano più eclettiche del dovuto. Di tutto questo non resta pietra su pietra, è vero. Eppure Palmira, ferita e umiliata, non ha ancora smesso di parlarci.
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