giovedì 9 marzo 2017
Sono sempre di più i proprietari dei club calcisti della seria A che parlano linge straniere
Il neopresidente del Parma, Lorenzo Sanz Mancebo jr. (Ansa)

Il neopresidente del Parma, Lorenzo Sanz Mancebo jr. (Ansa)

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È una vicenda che si potrebbe definire lunga come la fabbrica del Duomo, quella relativa alle date del closing che dovrebbe portare al nuovo Milan cinese. Per paradosso, l’epitaffio proverbiale concede un po’ di milanesità all’attesa di cambio al vertice destinato, se tutto andrà per il verso giusto, il prossimo derby della Madonnina a diventare il primo derby del Dragone, almeno nel calcio italiano. Perché l’Inter cinese la è già, da quando Suning ha rilevato la maggioranza del club nerazzurro da Erick Thohir, il magnate indonesiano che è ancora presente nel capitale sociale del club - oltre ad esserne presidente ma è stato il primo ad alienare la società da una proprietà indigena. Era il 2013, Thohir era il primo tycoon dell’Estremo Oriente ad assumere un ruolo talmente prestigioso, con conseguente oneroso impegno finanziario, nel calcio italiano, così come nel 2011 Neep Roma Holding, società per azioni controllata da Thomas Dibenedetto, aveva piazzato le stelle e le strisce della bandiera degli Stati Uniti sul presente e sul futuro della Roma, il cui presidente oggi è James Pallotta. E mentre il fondo americano di Paul Baccaglini (Integritas Capital) chiuderà l’era Zamparini a Palermo, dall’autunno del 2014 il Bologna è diventato di proprietà canadese grazie a Joe Saputo.


Poco alla volta i capitali provenienti dall’estero aumentano la propria fetta percentuale nel calcio italiano d’élite come già era accaduto, in precedenza, già in Premier League (a livelli ben più elevati, dal momento che oltre metà dei venti club hanno proprietà non britanniche), nella Ligue 1 francese o nella Liga spagnola, con una differenza sostanziale: mentre altrove cominciavano gli investimenti degli sceicchi emiratini e degli oligarchi russi - da Mansour agli Al-Thani, da Abramovich a Rybolovlev - in Italia, un po’ per la scarsa appetibilità del sistema un po’ per la diffidenza dei padroni del pallone nostrano nei confronti dei nuovi pari, il muro è stato abbattuto in ritardo, e solo con l’arrivo di magnati nordamericani e asiatici. Eppure la prima breccia risale a vent’anni fa, al 1997, quando la holding inglese Enic acquistò il 99,9% delle quote del Vicenza, fresco vincitore della Coppa Italia e iscritto alla Coppa delle Coppe. Enic Group, che figurava anche nelle compagini sociali di Rangers, Tottenham Hotspur, Slavia Praga, Aek Atene e Basilea, rimase al timone sette anni, visse l’occaso dell’ultima grande epopea biancorossa e lasciò nel 2004 al ritorno in sella di imprenditori locali. Era forse un investimento prematuro, ai tempi, quello nel calcio italiano, e se è vero che l’era Enic non può essere considerata un reale salto di qualità per il Vicenza, è altrettanto vero che, da allora, il club non si è mai nemmeno avvicinato a tornare nel giro che conta. È stato per quattro anni in mano ai capitali russi di Yuri Korablin il Venezia, rilevato ai tempi della D e riportato alla Prima Divisione, prima di una cessione non avvenuta e di una vicenda chiusa con il fallimento.

Oggi il Venezia è di Joe Tacopina, l’avvocato newyorkese già nel CdA della Roma con Dibenedetto e in seguito di quello del Bologna di Saputo; se funzionerà, sarà il campo a dirlo, mentre è stato il tribunale fallimentare di Pavia lo scorso ottobre a decretare il dissesto del club azzurro il quale, poco più di due anni prima, era passato nelle mani del fondo cinese Pingy Shanghai Investment. Lì è andata male, anzi malissimo, perché dopo due anni i cinesi hanno cercato un facile disimpegno, cedendo la società a un euro e dando così l’abbrivio ad un fallimento annunciato. Del resto, ben lontani dalla A o in piazze di piccole-medie dimensioni, investitori e speculatori del calcio non hanno mai vita facile. Peraltro qui, i casi di trattative mai chiuse, la letteratura è vasta. Indimenticabile Lorenzo Sanz, ex presidente del Real Madrid, che nel 2005 si palesò quale salvatore del Parma, allora in amministrazione controllata, protagonista di una vicenda intricata e tutt’altro che chiara nella quale perse anche la caparra versata. Non se ne fece nulla, così come non se ne fece nulla per l’albanese Taçi a Bologna - ricomparve brevemente poi, anche lì enigmaticamente, a Parma dopo i guai di Ghirardi - o per alcuni personaggi (il texano Tim Barton a Bari, l’italoamericano Joseph Cala a Salerno e Lecco) forse più adatti ad un film che a un CdA. E sempre a Bari, un anno fa, si parlò di un’acquisizione malese, che però non si verificò. Chi al contrario su capitali esteri può contare da anni è la Juventus, in cui gli investitori stranieri vanno e vengono sempre con quote di minoranza. Prima della quotazione in Borsa la finanziaria libica Lafico arrivò sino al 7,5%, oggi scorrendo il flottante si può rilevare, all’interno del 13% lasciato al mercato azionario, la presenza oltre il 7% del fondo inglese Lindsell Train (ha anche una quota del 12% del Celtic) e, al di sotto del 2%, compaiono pure il fondo pensione di Royal Bank of Scotland e quello della statunitense FedEx.

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