venerdì 1 marzo 2019
Una mostra sul grande messinese, con 19 opere, a Palazzo Reale. Negli ultimi anni si sono ripetute senza grandi novità. Il pubblico di massa risponde ma è all’oscuro delle faide critiche sul pittore
Antonello da Messina, «Ritratto d'uomo» (1470 ca., particolare)

Antonello da Messina, «Ritratto d'uomo» (1470 ca., particolare)

COMMENTA E CONDIVIDI

Immaginiamo Roberto Longhi che, prendendo atto delle alterne fortune critiche di Caravaggio fra Otto e primo Novecento, con rare se non rarissime mostre monografiche (al contrario di oggi dove non si fa sera se non apre un’altra, pretenziosa e pretestuosa mostra caravaggesca); dicevo: immaginiamo Roberto Longhi che registrando il crescere della fama del Caravaggio fra la gente comune, il popolo allora (ma oggi dov’è il popolo?), se ne uscisse con questa affermazione: «Caravaggio, molto banalmente, piace». Chi non trasalirebbe nel leggere una sì lapalissiana affermazione critica da parte di Longhi? Ora sostituite al nome Caravaggio quello di Antonello, e avrete la citazione esatta di ciò che figura alla riga tredici dell’introduzione al catalogo della mostra del messinese in corso a Milano. Si tratta di sessantasei righe firmate dai curatori della mostra, Caterina Cardona e Giovanni C.F. Villa, dove il banalmente si spreca. Vediamo: «Dopo le rare mostre monografiche – tanto più rare quanto memorabili – dedicate ad Antonello da Messina, è forse giunto il momento di chiedersi, al di là delle considerazioni da puri storici dell’arte, a cosa si debba il “mito” di Antonello ». Leggo e rileggo e mi chiedo: rare? Fino al 2006 una ogni trent’anni (che nella logica di studio è un intervallo consono, salvo non siano intervenute scoperte sensazionali che richiedono di fare il punto), ma con la mostra tenutasi alle Scuderie del Quirinale tredici anni fa, questa di Milano è la terza (l’altra fu nel 2013-14 a Rovereto), quindi con un intervallo di sei-sette anni, che a ragion veduta si può considerare un tempo eccessivamente stretto, salvo – ovviamente – non siano intervenute scoperte sensazionali che richiedono di fare il punto, oppure, banalmente, ragioni di cassetta museale. «Piace a tutti in un modo immediato ed esclusivo, senza intermediazioni culturali». Che cosa significa “senza intermediazioni culturali”? Che piace a pelle? Piace perché ha una verità pittorica che sfida la nostra idea del visibile? Piace, se si vuole, perché Antonello è un abile incantatore che dipinge ritratti che sono vere macchine dello sguardo? Ma no, piace perché «mira diritto al cuore e alla sensibilità di chiunque si soffermi davanti davanti a una sua immagine »: come dire, piace come una bella foto di paesaggio che susciti emozioni.

E i suoi ritratti? «Uomini e donne che riconosci, che ritrovi, che ti sono familiari anche quando rappresentano la Madonna o un affabile santo colto nel suo studio...». Tutto sono i ritratti di Antonello tranne che empatici; tutto è il San Girolamo nello studio tranne che un santo affabile... E poi ancora: «Un paesaggio mentale. Un paesaggio inconscio e sempre presente. E poi c’è il dolore umano, umanissimo di quel Cristo crocifisso...». Mettiamoci d’accordo: agli storici dell’arte si affidino tutte le curatele del mondo, ma si eviti di fargli scrivere introduzioni “banali”, che invece di esporre le ragioni critiche di una mostra, cantino i buoni sentimenti. Era, ahimè, lo stesso limite che denunciai in occasione della mostra di Rovereto, realizzata da storici coi fiocchi (e anche un po’ risentiti verso il curatore della mostra del 2006, Mauro Lucco, per la sua delegittimazione delle tesi longhiane sui legami coi veneziani e Piero della Francesca), con l’introduzione in catalogo della direttrice del Mart piena di sdolcinate elucubrazioni empatiche. Ma poi alzo gli occhi alla dedica dei due curatori della mostra di Milano, e mi diventa subito chiaro che la “singolar tenzone” continua con una nuova sfida ai longhiani: «A Mauro Lucco per settant’anni di generosa maestria». Ognuno verifichi e tragga le sue conclusioni.

Qualche parola sul catalogo della mostra, edito da Skira (che ha prodotto l’intera iniziativa, e ha allestito un bookshop dove vi sono ben poche tracce dei materiali di studio più recenti, a cominciare dai cataloghi di Roma e Rovereto): è concepito come una monografia sull’artista che presenta pressoché l’intero corpus di 35 opere, mentre in mostra sono 19 più una di Jacobello, figlio del messinese (a Rovereto erano 17, a Roma qualcuna di più). Ad alcune opere il catalogo accosta riflessioni di letterati e scrittori (Roberto Alajmo, l’angloindiana Jhumpa Lahiri, Giorgio Montefoschi, Elisabetta Rasy, Nicola Gardini) alternati da saggi storico- critici del curatore, del padre del curatore Renzo Villa (viaggiano sempre in coppia), della direttrice del palermitano palazzo Abatellis, Elvelina De Castro, di un ex funzionario della regione Sicilia e storico dell’arte, Gioacchino Barbera, e di un esperto di conservazione, Gianluca Poldi, laureato in fisica a Milano, specializzato a Bergamo in materie umanistiche e a capo della sezione di Diagnostica sui beni culturali del Centro arti visive dell’Università di Bergamo diretto dal curatore della mostra.

Ciò che ho scritto fin qui è frutto di una forte perplessità sull’urgenza di questa mostra, la cui nota assai pregevole è il corredo dei disegni di studio sulle opere di Antonello eseguiti dal grande Cavalcaselle (le cui attribuzione sono ancora oggi in buona parte confermate). Non si discute affatto la bellezza di ogni opera e l’intrigante linguaggio visivo di Antonello, tutt’altro che “popolare” (come avrebbe potuto sembrare invece Caravaggio). Ma una mostra va considerata come atto critico, e non si vede che cosa si sia aggiunto di rilevante nelle nostre conoscenze rispetto alle due mostre precedenti (questa di Milano, tra l’altro, con poche differenze si era chiusa a Palermo due settimane fa, a palazzo Abatellis). Facendo il paragone con la mostra del Caravaggio del 1951, possiamo senza dubbio dire che se quella fu una mostra «umana non umanistica», ovvero “popolare”, questa di Antonello è e resterà una mostra per un pubblico che ha ormai perso la connotazione di popolo ed è diventato “massa di consumatori”.

Ho quasi finito lo spazio a disposizione, quindi passo a un’annotazione che mi è capitato di fare anche in precedenza. Dove ha preso Antonello quella singolare idea di sguardo mobile che emerge da quasi tutti i suoi ritratti? Osservando quei volti da destra a sinistra o da sinistra a destra si vedrà il personaggio raffigurato che ci segue con gli occhi nello spazio. Si diceva del “paesaggio mentale”, ma tutta la pittura di Antonello è mentale. Non si penserà seriamente che quel teatro delle “cose-idea” che ha allestito attorno al San Gerolamo nello studio sia una rappresentazione “fiamminga”, scambiando così la tecnica figurativa minuziosa che assimilò sull’esempio dei nordici, con la sua simbolica degli oggetti e delle forme che, nei ritratti, diventa espressione di un pensiero sottocutaneo? È un pensiero che si libera, attraverso l’espressione fisiognomica, dell’apparenza del soggetto raffigurato e assurge a manifestazione di idee profonde (inconsce, però, mi pare termine improprio). Non trasfigura il volto del soggetto raffigurato, ma ciò che esso vuole celare, e questo grazie alla levigatissima fedeltà ritrattistica che si muta, con la luce e la solidità del colore, in maschera (nel senso anche teatrale, dramatis personae).

È teatrale Antonello perché eredita la storia antica della sua terra, e lo “sguardo mobile” ne è la trasposizione pittorica. A chi deve l’idea? Mi sono chiesto e ancora mi interrogo se la fonte di Antonello non sia quel passo iniziale del De icona, dove Nicola Cusano parla ai suoi monaci di un ritratto di Cristo che mentre lo si guarda muovendosi nello spazio ci segue con gli occchi, come se li tenesse sempre puntati su di noi. È, dice Cusano, la rappresentazione di Dio che tutto vede e tutto può, quel Dio creatore che segue i suoi figli senza mai staccare gli occhi da loro. Così, i ritratti di Antonello sono immagini di uomini, donne e figure della tradizione cristiana che attraverso lo “sguardo mobile” esprimono livelli differenti di presa e controllo della realtà. Il soprannaturale qui ha ancora il primato su una ritrattistica moderna che con Lotto si aprirà invece al “perturbante” e alle affezioni della mente.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: