mercoledì 17 ottobre 2018
Le Scuderie del Quirinale celebrano i fasti e le metamorfosi del poeta dell’età dell’oro augustea più amato nei secoli. Una fortuna che ha travalicato il triste esilio e la morte avvenuta 2000 anni fa
Carlo Saraceni, “Caduta di Icaro” (1605 - 1608). Napoli, Museo di Capodimonte

Carlo Saraceni, “Caduta di Icaro” (1605 - 1608). Napoli, Museo di Capodimonte

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Ci sono mostre da cui si leva quasi un alone luminoso. Mostre le quali, per l’entusiasmo che le anima e percorre, fanno quasi aggio sullo stesso soggetto dell’evento; anche quando quest’ultimo emana a sua volta una luce magica come “Ovidio. Amori, miti e altre storie” (Roma, Scuderie del Quirinale, che resterà aperta fino al 20 gennaio prossimo). La mostra – affidata alle cure di Francesca Ghedini, con Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo e Federica Zalabra, curatori anche dell’elegante catalogo – è stata sollecitata dall’ultima fase del bimillenario della morte di Ovidio, il poeta nato a Sulmona (attuale Abruzzo centrale) nel 43 a.C. e morto a Tomi (attuale Romania, dove venne relegato da Augusto) tra il 17 e il 18 d.C. Ovidio non è un poeta qualunque della romanità. Opera infatti a Roma con enorme successo, fatto che causerà la sua rovina, nella stretta cerchia della famiglia del princeps Augusto, in quell’irripetibile fase che segna il transito della potenza romana, già avviato da Cesare decenni prima, dalle vetuste strutture repubblicane all’impero. È il poeta dell’amore, ma sotto un particolare profilo: la trasgressività, antitetica rispetto alla pestis perniciesque dell’inconsolabile e inguaribile mal d’amore di Catullo. Ovidio è l’opposto. È l’ammiccante poeta sfrontato, provocatorio, autore attorno al primo anno dell’era cristiana di quella scandalosa Ars amatoria, che oggi andrebbe tradotta, se volesse cercarsene il corrispondente in italiano, come “tecnica dell’amare”, più che come aerea e romantica “arte d’amare”; tecnica dunque di assedio, conquista e dominanza della donna da parte dell’uomo e viceversa. Ovidio ne è la gioiosa macchina da guerra. Ne codifica le tecnicalità, le armi non convenzionali, gli stratagemmi, gli inganni, e non si ferma a questo: esalta la clandestinità, il tradimento, il doppio gioco amoroso, il confronto tra amanti che ne richiede plurima esperienza; e dunque la libertà a confine con la licenza per tutti; per le donne, non sposate e coniugate, con un ridente, incoraggiato invito all’adulterio; il tutto a imitazione di ciò che fanno gli dei. È il poeta à la page dell’Urbs appena insediatasi quale caput sul trono del mondo conquistato. È il maestro dei piaceri indicibili nella Roma capitolina, sul colle dove vive in una ricca dimora, con la terza giovane moglie, presso i palazzi di Augusto; nei quali sale a incontrare la nipote del principe, Giulia Minore, la cui sfrenata condotta sessuale è sulla bocca di tutti in città e indurrà lo zio a relegarla lontano contemporaneamente a Ovidio, nell’8 d.C. Le cause che li accomunano resteranno ignote, alimentando un giallo irrisolto da duemila anni. Invano Ovidio, confinato con fulmineo provvedimento nella remota Tomi, protesterà la sua innocenza, dicendosi «frainteso in una poesia» che noi posteri non conosciamo, ma che con ogni probabilità trattava degli amori clandestini di Giulia Minore. Nonostante suppliche e plorazioni, non otterrà mai da Augusto il ritorno a Roma e morirà disperato, sulle rive del Mar Nero, dopo 10 anni di relegazione.

Ma questa mostra nata dal bimillenario non tratta della disgrazia e morte di Ovidio. Tratta del suo trionfo precedente e di quello successivo: di tutta la sua opera poetica che ne farà l’autore cui più attinge la letteratura dell’Occidente, da quella medievale a quella umanistica, da quella rinascimentale a quella secentesca (in particolare nel teatro francese, spagnolo del siglo de oro e inglese, scespiriano); dall’età dei lumi,ai romantici, alla letteratura del Novecento, attraendo anche, a indagare il suo capolavoro Metamorfosi, psicanalisti del calibro di Freud e Jung. Questo Ovidius triumphans splende nella mostra alle Scuderie del Quirinale, con esposizioni di centinaia di opere che hanno richiesto straordinarie attività d’ingaggi e prestiti, alcuni dei quali al loro primo approdo in Italia. Ecco così i meravigliosi affreschi erotici pompeiani, a contornare l’opera forse più ammirata, tra le tante statue in mostra, la celebre Venere Callipigia (II sec d.C.) dal Nazionale di Napoli, accanto al solenne pontifex maximus Augusto, coi suoi inarrivabili panneggi togati, dal Nazionale di Aquileia, il museo friulano recentemente riorganizzato e riaperto; e, a seguire, il coevo Ganimede con l’aquila dagli Uffizi di Firenze; l’Atteone sbranato dai cani dal Nazionale di Roma e, da Centrale Montemartini, lo stupendo rilievo con la Disfida tra Apollo e Marsia (II sec d.C.); o le mutile, arcaiche lastre Campana (quelle non trafugate e commerciate all’estero). Ecco l’etruscheggiante terracotta ( VI-V sec a.C.) col Ratto di Proserpina dal MArRC di Reggio Calabria; o, a vivide figure rosse su base nera, i crateri del Dedalo e Icaro da Napoli, del Ratto di Europa da Montesarchio e l’anfora apula con la Caccia caledonia dal Winckelmann di Trieste (IV sec a.C). Poi, i bronzi antichi: il piatto a rilievo di Aquileia (I sec. d.C.) dal Kunsthistorisches di Vienna; la statuetta della Venere Cacciatrice da Portogruaro. Tra le piccole opere, il cammeo con scena erotica da Napoli e la terracotta ellenistica da Stoccarda, che ritrae gli amanti clandestini Marte e Venere, sorpresi nell’amplesso ed esposti legati, al ludibrio degli altri dei. E – dato che Ovidio attraversa i secoli – ecco i grandi quadri: la tempera della Venere Pudica (1485-90) del Botticelli; la copia dalla Galleria Borghese della Leda col cigno di Leonardo (1510-20); l’affresco staccato da Palazzo Farnese del Narciso del Domenichino (1603-4); dall’Estense di Modena, il Ratto di Europa del Tintoretto (1541-2); dal Franz Hals di Harlem la Morte di Adone (1647) di Holsteijn; dall’Archiginnasio di Bologna, la Caduta di Fetonte di Ludovico Carracci (fine 1500) stesso tema del meraviglioso integro fronte del sarcofago dal Lapidario di Verona (III sec. d.c.); per arrivare allo splendido marmo della Morte d’Ippolito (1715) del berniniano Lemoyne, raro prestito del Louvre, passando per i tardocinquecenteschi bronzi del Barga e dell’Ammannati, da Firenze. In conclusione, dar conto di tutte le opere in mostra è impossibile non solo per il loro numero, perché lo è dar conto di Ovidio, con lo sterminato, indomabile riemergere – attraverso la sua opera – dell’immaginario collettivo di una cultura di due millenni fa, da cui i millenni successivi non riescono a staccarsi.

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