martedì 23 novembre 2021
I teatri lirici di Napoli e Roma hanno inaugurato le loro stagioni con un doppio Shakespeare che, sia nell’opera verdiana che in quella composta da Battistelli, diventa nostro contemporaneo
A Napoli l’“Otello” di Giuseppe Verdi. In basso, a Roma “Julius Caesar” di Giorgio Battistelli

A Napoli l’“Otello” di Giuseppe Verdi. In basso, a Roma “Julius Caesar” di Giorgio Battistelli

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Sul palco del Teatro dell’Opera di Roma un emiciclo parlamentare, gradoni di legno e sedie rosse, ricorda quelli di Montecitorio e Palazzo Madama. Tanto più che sugli scranni ci sono uomini in giacca, cravatta e ventiquattr’ore. Sulla scena del Teatro San Carlo di Napoli, invece, uomini in mimetica che salvano con un gommone donne e bambini in balia del mare, evocano un’immagine che tante volte è entrata nelle nostre case da uno schermo tv. Perché l’arte, è (sempre) politica. Lo è la musica. Denuncia. Propone modelli. Indica una direzione. Lo fa nel Julius Caesar di Giorgio Battistelli, opera che sabato è andata in scena in prima mondiale (più di dieci minuti di applausi alla fine) aprendo la nuova stagione del Teatro dell’Opera di Roma: Daniele Gatti sul podio, regia di Robert Carsen. Lo fa nell’Otello di Giuseppe Verdi che domenica scorsa alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella ha inaugurato il cartellone 2021/2022 del Teatro San Carlo di Napoli: la bacchetta di Michele Mariotti, spettacolo firmato da Mario Martone (contestato “in casa” agli applausi finali).

Doppio Shakespeare, coincidenza singolare. Che, in musica, diventa nostro contemporaneo. Giulio Cesare diventa nostro contemporaneo. E non tanto (o non solo) perché appare sugli scranni del Parlamento (scene di Radu Borozescu) in completo grigio, icona di tanti politici di oggi, nel Julius Caesar di Roma. Nostro contemporaneo perché così lo vuole Battistelli, autore dell’opera andata in scena in prima mondiale al Costanzi. Segnale politico forte di Daniele Gatti, direttore musicale dell’Opera di Roma, che ha voluto aprire la nuova stagione con una prima assoluta (non capitava dal 1901 con Le maschere di Mascagni). Libretto ispirato a Shakespeare di Ian Burton (il drammaturgo ha sfrondato abbondantemente il testo originale) che in un inglese asciutto e comprensibilissimo racconta la congiura e l’assassinio di Cesare, i discorsi funebri di Bruto e Antonio, la guerra civile. Racconto che trova nella musica di Battistelli una perfetta corrispondenza.

Musica organizzata in un flusso continuo di suono ininterrotto con le scene che si susseguono in dissolvenza l’una nell’altra attraverso interludi orchestrali di grande potenza. Musica intelligentemente furba nel non parlarsi addosso, pur non rinunciando a una scrittura complessa - il coro ha iniziato a studiare la partitura già a luglio, l’orchestra è in sala prove, anche a sezioni, da settembre. Gatti dal podio rende naturale e immediata questa complessità per fare arrivare la musica intellegibilissima e chiara. Una musica in cui Gatti crede. E si sente (si vede) da come il direttore si butta a capofitto nella partitura, scandagliata nelle sue molteplici possibilità. Il suono orchestrale non sovrasta mai le voci che sono quelle di Clive Bayley ( Julius Caesar), Elliot Madore (Brutus) Julian Hubbard (Cassius), Dominic Sedgwick (Anthony), Ruxandra Donose (Calpurnia). Attori fantastici che restituiscono i fatti ai quali assistiamo, folla tra la folla, come ci vuole Carsen.

Assistiamo al funerale di Cesare, con il cadavere avvolto in una bandiera italiana. E poi alla guerra civile che Carsen immerge in un buio inquietante, in un campo di battaglia metafisico, con la struttura che evoca il Parlamento vista da dietro, nel suo scheletro metallico. Un racconto cinematografico, che ha un respiro epico e civile. Politico. Come quello di Martone per Otello a Napoli. Perché la Cipro di Shakespeare e del libretto scritto da Arrigo Boito per Verdi diventa (nelle scene di Margherita Palli) un posto di confine, tra mare e deserto, dove un esercito (anche Desdemona è una soldatessa) presidia il territorio, salva vite in mare. E dove si consuma il dramma della gelosia di Otello (che non è moro), un femminicidio diremmo oggi. Perché anche tra chi fa del bene si può insinuare il male, sembra dire Martone in uno spettacolo che (pur con passaggi poco risolti) funziona nella sua asciuttezza da reportage giornalistico. Ed emoziona. Otello pianifica l’omicidio, Desdemona si ribella, impugna la pistola contro il marito. Ma poi soccombe. Viene messa su una barella e portata via. E Otello la piange, solo. In carcere.

Immagine potente sulla quale si spengono le note di Verdi che Mariotti sbalza in tutta la loro raffinata bellezza. Il direttore (che fa suonare e cantare al meglio orchestra e coro) lavora di cesello per restituire la vicenda nella sua dimensione più intima. Come fa Jonas Kaufmann che insieme allo squillo (quello dell’Esultate iniziale) mette la sua sapienza musicale di filati e mezzevoci nel canto lasciando l’eroicità di Otello tutta alla dimensione scenica da grande attore. Niente di sinistro o di sghembo o di eccessivo nello Jago misuratissimo e musicalissimo, insinuante e suadente di Igor Golovatenko. Maria Agresta, già tante volte Desdemona, appassiona e commuove, specie nella toccante Ave Maria con cui, non senza sgomento e umana ribellione, va incontro alla morte.

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