martedì 28 luglio 2015
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Fu il primo atto del disgelo fra Est e Ovest firmato il 1° agosto del 1975 a Helsinki. L’atto finale della Conferenza sulla cooperazione e la sicurezza in Europa (Csce) è stato commemorato lo scorso 23 giugno a Palazzo Giustiniani nel convegno “La pace attraverso il dialogo” in cui sono intervenuti il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin e del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Si tratta, ha affermato in quell’occasione Gentiloni, dell’«evento internazionale più innovativo e più coraggioso della seconda metà del Novecento, quanto meno per la storia europea». Una dichiarazione finale che, benché priva di obblighi giuridici, vide «il blocco sovietico convergere su un linguaggio occidentale in materia dei diritti fondamentali». Una volontà di accordo su qualcosa che potesse interessare tutti con i sovietici che volevano cristallizzare le frontiere del dopo Jalta, mentre l’Occidente voleva instillare quelle che l’allora ministro degli Esteri Aldo Moro definiva «germi di cambiamento». Decisivo l’apporto della Santa Sede che per la prima volta dal Congresso di Vienna partecipava come membro a pieno titolo a un congresso di Stati. «La presenza della Santa Sede – ha dichiarato il cardinale Parolin – avrebbe dato al concetto di pace un fondamento morale e non solo politico». Ma pochi a Helsinki, il 1° agosto 1975, colsero pienamente il significato della parole del VII principio dell’Atto finale, che sottolineavano «la libertà dell’individuo di professare e praticare, solo o in comune con altri, una religione o un credo, agendo secondo i dettami della propria coscienza». La Conferenza di Helsinki, 40 anni fa, fu l’epilogo del processo di riavvicinamento dei due blocchi nati dopo la seconda guerra mondiale. Fu il primo risultato concreto della Ostpolitik, nella quale il Vaticano ebbe un ruolo decisivo: il riavvicinamento in nome della sicurezza e della cooperazione, rappresentò pure la consacrazione dei diritti umani in nome della libertà religiosa, come architrave di una nuova politica europea.  La storica Emma Fattorini, membro della delegazione italiana dell’Assemblea parlamentare dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) e senatrice Pd, ha partecipato a Helsinki alla sessione commemorativa per i 40 anni dell’atto finale della Conferenza di Helsinki. Professoressa Fattorini, da cosa nasceva quella volontà di dialogo con l’Est Europa che portò al primo atto di «disgelo»? «L’Ostpolitik, diceva il cardinale Villot, il segretario di Stato di Paolo VI, non era da intendere come ars vivendi, ma come ars non moriendi: era all’inizio un rimedio alla persecuzione, fosse violenta o fosse di lento soffocamento. L’Ostpolitik era mal compresa da molti critici, al di qua e al di là della cortina di ferro, perché accusata di essere una concessione al comunismo, un atto di debolezza e un’accettazione dell’ingiusto status quo esistente nell’uno o nell’altro Paese. Queste critiche non capivano lo sguardo lungo insito nella moderazione diplomatica di questa strategia che guardava al futuro a prezzo anche di compromessi contingenti. Dopo il 1989 voci critiche affermarono che l’Ostpolitik era stata superflua, vista l’imminente fine del comunismo, ma nessuno prevedeva negli anni Sessanta e Settanta un crollo così repentino di un’ideologia e di un dominio imperiale creduti vitali e potenti e, nella Chiesa, solo Karol Wojtyla già nel 1978 credeva possibile nel medio termine questo crollo e anzi lo preannunciò nel suo primo viaggio in Polonia». Una apertura al dialogo, dunque. Ma non fu anche un scendere a qualche compromesso con i regimi sovietici? «Certamente l’Ostpolitik non significava un atteggiamento  acquiescente verso il comunismo. Era semmai squisitamente diplomazia, quella alta. La politica del dialogo avviata dal Vaticano era considerata particolarmente affidabile: perché scevra dalle rivendicazioni occidentali e perché duttile, sapeva cioè distinguere tra opposizione alla dottrina marxista e convergenza pragmatica politica. La politica vaticana si muoveva con molta autonomia dai Paesi occidentali, la sua politica di dialogo con i Paesi socialisti aveva intenti pastorali e di pacificazione, di una riduzione delle tensioni per sostenere una politica del disarmo. Inoltre c’era in quella strategia un’intuizione potente: la libertà religiosa – come metafora di tutte le libertà di espressione e dunque il cuore dei diritti umani – concrete politiche di disarmo e giustizia sociale erano intese come le strade maestre per concludere non solo la fase più acuta della guerra fredda ma anche per ridisegnare un ruolo alto e ampio all’Europa delle nazioni. Quello che dopo Helsinki divenne una piattaforma per tutti». Cosa rappresentò, in questo contesto e con queste premesse, la Conferenza di Helsinki? «Nel luglio e agosto del 1975 la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa fu il primo generale incontro di tutti i Paesi dopo la seconda guerra mondiale, dopo il ventennio 1950-1970 segnato dalla nascita del Patto di Varsavia e della Nato, il conflitto coreano le repressioni a Berlino est, a Budapest e in Polonia, la vicenda del canale di Suez, la guerra in Vietnam, la crisi di Cuba e da tutti i focolai e le destabilizzazioni del consumarsi del processo di decolonizzazione. A Helsinki si sfaldarono consolidate diffidenze come quella, la madre di tutte, che un processo di distensione avrebbe significato meno sicurezza per l’occidente». Quale eredità preziosa di questo Atto di Helsinki? Resta solo un metodo o ci sono dei contenuti attuali? «Mi viene in mente ciò che il cardinale Achille Silvestrini scriveva nell’introduzione alle memorie di Casaroli intitolate significativamente Il martirio della pazienza e cioè che “il dialogo lungo e faticoso dell’Ostpolitik ha lasciato frutti nel tempo” e può continuare a darne. Helsinki ci lascia dunque come primo frutto questa sapienza diplomatica così preziosa per affrontare le crisi delle repubbliche post-sovietiche. Ogni papa ha poi avuto una sua visione della distensione e della pace: quella di Giovanni XXIII è fatta di intuizioni, atti coraggiosi, quella di Paolo VI di piani più organici, è più progettuale. Giovanni Paolo II richiama le Chiese dell’Est a essere più coraggiose, più politiche, pensiamo al suo intervento deciso e decisivo in Polonia. Con Wojtyla la Ostpolitk si fa aggressiva culturalmente e politicamente, ma resta nelle mani prudenti di monsignor Casaroli, divenuto cardinale segretario di Stato. Giovanni Paolo II concepiva dunque un’Europa fino agli Urali, comprensiva della Russia, cioè la Grande Europa dall’Atlantico agli Urali, cui teneva molto più della piccola Europa di Bruxelles. E il secondo frutto dello spirito di Helsinki, tanto utile se pensiamo ai conflitti del Mediterraneo, è l’interdipendenza tra giustizia, pace, diritti umani e libertà religiosa. Non è imbelle pacifismo ma è l’unica connessione capace di ridare spinta vitale a un’Europa asfittica e depressa».
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