martedì 12 maggio 2015
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​Se ogni libro racchiude, in qualcuna delle pagine, la cifra con cui l’autore vorrebbe far riconoscere e apprezzare senza troppe incertezze o fraintendimenti l’anima della sua opera, nel lavoro che affanna il tratto finale della vita di Alfredo Oriani questa cifra la si ritrova subito e di colpo: «L’ideale solo è vero». La rivolta ideale viene alla luce nel 1908. Oriani aveva presagito con tormento che questo «è forse il più bello, il più nobile dei miei libri e non sarà meno disgraziato degli altri». Non appena pubblicato, il volume s’imbatte in una sorte che allo scrittore dovette sembrare la medesima di quella già toccata a La lotta politica in Italia una quindicina di anni prima, quando, con quell’imponente affresco di storia patria, egli aveva lasciato libera la propria vena letteraria-drammaturgica di dare un più intenso colore ad alcune gesta o eventi, un più nobile ruolo a talune figure, un’espressione talvolta sin troppo netta o polemica alle idee e convinzioni maturate in un’età politico-culturale che gli appariva sempre più intollerabilmente mediocre, sempre più in preda a un corrompimento convulso e irrefrenabile. Il nuovo e ultimo lavoro di Oriani – il suo «testamento spirituale», o, forse, il suo sguardo puntato con speranza, nonostante tutto, su un futuro che gli era ormai precluso – viene difatti avvolto dal silenzio [...]. Se il regime fascista collocò lo scrittore faentino nel sacrario dei propri precorritori, ora, a distanza di quasi un secolo, un equilibrato lavoro di carattere storico dovrebbe riuscire a indicare con precisione la gamma d’intenti e la varietà di obiettivi, non sempre banalmente strumentali, con cui l’opera ultima di Oriani venne adoperata dal fascismo (ossia dal suo capo, dagli ideologhi maggiori, dai dominanti ceti intellettuali). Adoperata, grazie soprattutto all’identità o affinità di “ideali” che, presenti nel libro di Oriani in misura più estesa o intensa di altri autori, risultarono agevolmente degradabili in contenuti della “nuova” ideologia fascista, o in suoi puntelli. E abilmente sfruttata, in ragione della forza con cui La rivolta ideale, facendo ancora sentire l’eco di una tradizione misconosciuta e magari tradita nel più recente passato, consentiva di giustificare perché ogni “novità” – compresa quella, retoricissima, dell’“Italiano nuovo” – non potesse mai essere equivocamente scambiata con la menzognera antitesi o la proterva mistificazione di ciò che realmente costituiva e ancora nutriva la storia e la vita quotidiana del popolo [...].Leggere o rileggere La rivolta ideale non è mai una prova semplice. Ancora più gravosa, temo, lo è ai nostri giorni. La lettura richiede l’esercizio di non farsi fuorviare, pur tenendola nella giusta considerazione, dalla più favorevole e inquietante fra le cicliche congiunture del libro conclusivo di Oriani. Ciò esige l’umiltà di domandarsi non solo perché quest’opera si sia dimostrata così agevolmente e proficuamente usabile dal fascismo, ma anche e soprattutto se La rivolta ideale non rappresenti o abbia in sé (e non per caso) qualcosa che serve a situare con ulteriore e maggiore precisione la stessa realtà fascista all’interno della vicenda unitaria dell’Italia. Qualcosa che, al tempo stesso e in aggiunta, contribuisce a evitare di “parrocchializzare” il fascismo dentro la sola storia italiana, collocandolo invece nella cornice (anche nella cornice, quantomeno) di un’Europa che in sé avverte per la prima volta, e in mille modi incomincia a rimuovere o esorcizzare, i segni che eloquenti preannunciano come il “primato” europeo sia sempre meno perpetuabile nelle forme e mediante gli strumenti con cui era stato costruito e garantito. E come esso, ormai, troppo assomigli a un dominio che, non più assoluto, ha incominciato ad attraversare le fasi intermittenti di un più o meno lungo declino.La rivolta ideale non è per nulla estranea al flusso di quelle idee e premonizioni che – talora genialmente disordinate e talvolta un po’ arruffate, ma quasi sempre refrattarie a ogni irreggimentazione dentro una delle discipline accademiche istituzionalizzate – sincreticamente alimentarono l’insieme di visioni o immagini filosofiche, storico-culturali, letterarie, intorno al “tramonto” (alla “crisi”, all’“autunno”) dell’Europa e forse dell’intero Occidente. A guardare bene, anzi, con questa singolare e poco amata compagnia di pensatori, nient’affatto desiderosi di interloquire vicendevolmente o manifestare rapporti di possibile parentela, l’opera ultima di Oriani condivide il medesimo, sorprendente destino. Tutte le visioni e le immagini del declino dell’Europa e della sua civiltà sono state infatti forzatamente raccolte, isolandole l’una dall’altra, all’interno di una specie di parentesi intellettuale talmente smaterializzata di ogni preciso riferimento ai mutamenti storici in atto, da apparire senza una propria storia, fuori della storia, quasi contro la storia. Una parentesi che inopinatamente pare aprirsi solo nei primissimi decenni del Novecento. E che già sembrerebbe chiusa non appena si consuma la seconda delle due guerre civili europee. È, o si vorrebbe che fosse, una parentesi intellettuale (di “intellettuali”), accessoria e persino superflua rispetto allo scorrere rapido di un secolo che, se è apparso breve per il velocissimo rincorrersi di eventi imprevedibili nel loro accadere e nella cascata delle loro conseguenze, si è poi rivelato sin troppo longevo, prolungando dentro questo nostro secolo nuovo tutte le incertezze, grandi o piccole, lasciate dai sovvertimenti della centralità politico-territoriale dell’Europa e dal deperimento delle sue egemonie culturali, religiose e spirituali, sociali.Nell’eccessivamente lungo o smodatamente breve Novecento, tuttavia, le immagini e idee di “crisi” hanno messo radici ben più robuste e profonde di quanto non siamo ancora disposti a riconoscere.
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