lunedì 16 gennaio 2017
Giovedì, per la prima volta dalla rivoluzione islamica del 1979, un'orchestra occidentale si esibisce in Iran: è quella del Festival Puccini, impegnata nella "Quinta sinfonia", con musicisti iraniani
Il maestro Paolo Olmi (foto Lidia Bagnara)

Il maestro Paolo Olmi (foto Lidia Bagnara)

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Da giorni si conferma il “tutto esaurito”, nella grande Vahdat concert hall di Teheran. L’evento è decisamente storico, occasione di scambi culturali tra Iran e Occidente. Per la prima volta, dalla rivoluzione islamica del 1979, giovedì 19 gennaio, un’orchestra sinfonica occidentale si esibisce in Iran. Sul podio, a chiudere il Fair music festival di Teheran, due direttori italiani, i maestri Alberto Veronesi e Paolo Olmi, condurranno l'Orchestra del Festival Puccini. Merito dell'Ambasciata d'Italia in Iran e dell'Istituto iraniano di cultura in Italia, ma in particolare anche di un riconosciuto “ambasciatore della musica”, il maestro Paolo Olmi, da anni impegnato a scovare talenti e con una passione per i popoli e le nazioni più lontane. Tanto da essere stato anche il primo direttore d'orchestra italiano invitato nella Cina comunista, nel lontano 1988.

Maestro Olmi, questa avventura musicale in Iran, come nasce?

«Amo lavorare con i giovani. Dal 2011 metto insieme, prima di Natale, un'orchestra che viene da più angoli della Terra. La Young Musicians European Orchestra, fatta di ragazzi e ragazze, dai 18 ai 28 anni. Dall'Italia al Canada, Cina, Kazakistan, Russia, Ucraina, Spagna, Francia, Sudafrica... Ci sono musicisti israeliani, accanto a musicisti palestinesi. Che grande squadra. Abbiamo suonato i concerti di Natale al Quirinale, a Matera, capitale della Cultura 2019, a Rieti per i bambini terremotati, a Betlemme e Gerusalemme. In Terra Santa, in collaborazione con il governo di Israele e l'Autorità palestinese, abbiamo potuto far suonare musicisti palestinesi in Israele e israeliani in Palestina. Cerchiamo di ricreare una dimensione non voglio dire etica ma quanto meno qualcosa che sappia andare più in là della stessa musica. Purtroppo, oggi, anche in Italia, sono in molti a ritenere che la musica non serva a niente. Mentre, in realtà, educazione alla musica è evoluzione del bello, che edifica la persona».

Maestro Olmi, dove ha osservato che attraverso la musica, come lavoro, si fa promozione nella diffusione della cultura che allontana i pregiudizi?

«Quando abbiamo portato musicisti israeliani a esibirsi a Betlemme, dove non erano mai stati. Un grande entusiasmo. La musica può diventare un tratto d'unione, dove c'è divisione e diffidenza. In genere il pensiero razzista trova humus nell'ignoranza, difficilmente è il contrario».

Musica e arte rendono più matura la società, fortificano la solidarietà: lei sostiene che ciò funziona meglio se passa attraverso il compito del lavoro.

«Sicuro. Provi a immaginare: se io metto nello stesso leggio due contrabbassi, uno israeliano e uno palestinese, a lavorare per ore e ore di prove per realizzare una cosa così impalpabile come la musica, dalla fatica, dalla solidarietà, dalla complicità nell'esecuzione del testo, dal lavoro, quindi, mai si metteranno a litigare. La vera passione per la musica è sempre più forte di ogni divisione».

Come siete arrivati all'Iran?

«Nel 2013 ho ascoltato un giovane iraniano, scoperto in Finlandia a un concorso internazionale per violoncello: Kian Soltani. Figlio di iraniani esuli, nato in Europa, ma sempre iraniano. Del suo Paese me ne ha sempre parlato con nostalgia. Soltani era con noi in orchestra quando ci siamo esibiti in Terra Santa. Questo è avvenuto nonostante la sua nazionalità, non riconosciuta da Israele. Come l'Iran non riconosce Tel Aviv. Non è stato facile portare Soltani con noi, ma ci siamo riusciti. Poi la notizia è arrivata a Teheran: come, un iraniano che suona in Israele, con il consenso del governo israeliano? L’occasione era l'esposizione dell'Annunciazione del Botticelli, una serata stupenda. Saputo della curiosità degli iraniani, abbiamo cercato un approccio con le autorità locali, attraverso il bel lavoro svolto dalla nostra ambasciata a Teheran».

Non deve essere stato facile, visto l'atteggiamento che le autorità iraniane riversano verso i costumi, dunque anche la musica occidentale?

«I primi contatti sono stati freddi. Difficili per il pregiudizio nei confronti di tutta la musica occidentale, considerata per lo meno decadente e negativa. Poi, un giorno, e lo ricordo bene, era il 22 giugno 2014, l'ayatollah Ali Khamenei espresse un suo parere. Disse che “la musica ha molti elementi di negatività, però non sempre”. Dalle sue parole si capiva chiaramente che gli piacevano certi autori. Inconfondibilmente, fra tutti, Ludwig van Beethoven. A questo punto abbiamo rilanciato la nostra disponibilità. Ed eccoci qui a Teheran, anche grazie al Festival pucciniano di Torre del Lago. A trentadue professori d’orchestra italiani si uniranno dieci elementi della YMEO e quarantacinque dell’Orchestra sinfonica di Teheran».

Sarà emozione allo stato puro, davanti a quei leggii composti da un melting pot, eterogeneo di diversità.

«Come no. Questa collaborazione ci riempie di orgoglio, di gioia. C'è voluta pazienza e tanta diplomazia per un progetto come questo. La musica può essere un ponte per sviluppare le relazioni: si fa più con la musica, che con le parole. Quando cominciano a parlare, già può accadere che ci si divide. Questo non succede con la musica, per la sua specifica componente metafisica».

Maesto Olmi, eseguirete Beethoven, naturalmente?

«Gli iraniani hanno scelto. La sinfonia più famosa, la Quinta. Anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, aveva avuto la stessa idea: offrire a Teheran i Berliner Philharmoniker quale segno di apertura per la fine delle sanzioni internazionali. I tedeschi hanno però sottovalutato alcuni aspetti organizzativi. E così, i primi a rompere il ghiaccio, saremo noi italiani».

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