martedì 2 febbraio 2016
L'esodo giuliano-dalmata: la memoria unica via per la riconciliazione
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«È difficile aggiungere qualcosa a queste parole, che hanno colto in pieno il senso di questa giornata. Sono state parole di storia vissuta, parole libere, le più opportune che si possano dire per commentare un pezzo di storia tanto difficile»: così la presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, questa mattina ha concluso in Aula consiliare la commemorazione del Giorno del Ricordo, dedicata all’esodo dei giuliano-dalmati e al dramma delle foibe. A tenere l’orazione pubblica era stata l’inviata di Avvenire, Lucia Bellaspiga, che ha narrato le vicende dal dopoguerra ad oggi attraverso le memorie raccolte negli anni per il nostro giornale dalla bocca dei testimoni, patrimonio altrimenti destinato a scomparire insieme ai protagonisti. A Trieste oggi era la prima volta che il Giorno del Ricordo - istituito per legge nel 2004 - veniva celebrato dalle Istituzioni, dunque l’evento è sentito come storico dalle tante comunità degli esuli. Ad aprire la solennità civile era stato il presidente del consiglio regionale, Franco Iacop, alla presenza delle associazioni di esuli.Qui di seguito l'orazione di Lucia Bellaspiga.Ho sempre conservato, di Trieste, uno dei miei primi ricordi: è qui che da bambina, quando ancora passare il confine era difficile e troppo doloroso, i miei cari mi portavano… a guardare l’orizzonte. Che cosa aveva di speciale la linea di costa che mi indicavano al di là del golfo? Perché venivamo da Milano a cercare con lo sguardo un’ombra di terra, miraggio evanescente di cui non comprendevo il segreto? “Quella è l’Istria, lì c’è Pola”, mi spiegavano, ma poi mi risparmiavano il resto, come a proteggermi da un finale tetro. Sembrava di poter allungare una mano e toccarla, tanto era vicina, ma ad impedirlo c’era un muro invisibile: noi di qua, Pola di là. Fino al giorno in cui mia madre si sentì pronta per il grande Ritorno e il muro di vetro si infranse… Eccola finalmente Pola: esisteva davvero! La città dove era nata, dove aveva vissuto il suo presente spensierato di ragazza e sognato il suo futuro di donna, era lì, e i suoi racconti prendevano forma, diventavano veri: così scoprivo anch’io di avere delle radici come gli altri bambini, e per la prima volta capivo che cosa significhi essere “figlia di esule”. Vidi il suo liceo Carducci, la casa, le finestre della stanza in cui era stata ragazzina. Ricordo che un’imposta si aprì e una signora gentile, dall’accento straniero, vedendola piangere capì: “Vuole salire?”, le chiese. I vetri blu alle finestre erano ancora quelli dell’oscuramento, eppure la guerra era finita da trent’anni. Su tutta la città si era depositata la patina grigia di anni difficili e bui. Notavo che per uno strano motivo lì si parlava poco e tutti a bassa voce, come si avesse sempre paura… Pola sembrava una vecchia signora decaduta, lacera in vestiti un tempo eleganti, ma adagiata sul mare più bello e profumato che avessi mai visto. Tra le sue vie immaginavo la vita dei miei parenti ora sparsi fino in Australia (sparnissadi dicevano loro). E lì, nella grande casa di Pola, quasi vedevo mia nonna, mai conosciuta. Di lei sapevo che era morta di crepacuore in un letto non suo, nella città più bella e più triste del mondo, quella Venezia dove era giunta in fuga nel ’47 e dove visse per sei eterni anni baraccata tra i profughi. Oggi riposa - lei sola - nell’isola di San Michele, il cimitero di Venezia, lontana dai suoi genitori, dal marito, dai fratelli… Sparnissade anche le tombe: anche questo è “ESILIO”. Della parola ho capito appieno il significato soltanto da adulta, quando ho provato a viverlo sulla MIA pelle. Provate! Proviamo a immaginare l’istante del distacco definitivo: un giorno esci dalla tua casa e sai che non ci rientrerai MAI PIU’. Dai un ultimo sguardo a tutto perché NON LO RIVEDRAI. Tiri la porta e nemmeno giri la chiave: tanto domani entrerà altra gente, che nulla sa della tua vita vissuta là dentro. Abbracci parenti, compagni, vicini di casa, e SAI che è un ADDIO. L’addio al tuo piccolo mondo, che per te però è tutto. Alle tue cose, alle abitudini, alle voci che riconoscevi senza bisogno di aprire le imposte, ai rumori del quartiere, al mercato, ai sapori, agli odori. L’addio a TE stesso, perché tutto questo eri stato. La nave che ti porta via per sempre si allontana e tu continui a guardarla, la tua casa, finché si vede, fino all’ultimo. Poi ti giri verso il nuovo orizzonte… Si ricomincia da zero, SENZA NIENTE, in luogo sconosciuto, tra gente sconosciuta. Viaggi sfiancanti su treni piombati e carri bestiame. Sul cuore un macigno. Ad accoglierti, all’arrivo, un campo profughi in qualche parte d’Italia, per te che sei italiano! I tuoi vecchi trascinati con te, oppure lasciati dall’altra parte del mare perché ne sarebbero morti… Diventata giornalista, ho raccolto tanti racconti dei ragazzi di allora: “Dopo giorni di viaggio - mi ha detto Roberto Stanich - siamo arrivati a Monza, era notte e nevicava. Al campo profughi non ci volevano più accogliere: tornate domani. Ma DOVE potevamo andare? Hanno avuto pietà e ci hanno aperto. Dentro gli stanzoni, centinaia di famiglie vivevano accampate, senza alcuna intimità, per pareti le coperte tese su una corda… Una suora ci portò a prendere dei sacchi e mucchi di foglie secche con cui riempirli: erano i nostri nuovi letti. Mamma, papà e io ci sedemmo e ci guardammo in silenzio. Finalmente scoppiammo a piangere”. Rimasero profughi fino al 1960. Questo accadeva nei 109 campi sparsi in tutta Italia. L’Italia del boom!… Da Lussino invece fuggiva Giovanni Zorovich con tre amici, di nascosto, sfidando il divieto del regime. Provarono di notte a salpare per raggiungere l’Italia a remi, ma nella baia li aspettavano i gendarmi di Tito… Era il 10 maggio del 1956. I quattro teschi, con un foro di proiettile, sono stati ripescati 40 anni dopo. Giovanni è stato identificato perché la madre aveva conservato le radiografie dei denti, la sola cosa che restava di lui. Nel 2001 sono stati sepolti a Lussino, l’isola da cui non sono mai partiti. La storia di un popolo è fatta delle tante storie dei singoli. Ma la NOSTRA storia era troppo scomoda per molti, e decenni di oblio imposto l’hanno quasi cancellata. È stato il presidente emerito Giorgio Napolitano ad infrangere dopo 60 anni la cortina del silenzio con un mea culpa dirompente: “Dobbiamo assumerci la responsabilità di aver negato la verità per pregiudizi ideologici”, ha detto nel 2007. Da cosa erano scappati, infatti, i 350mila partiti dall’Istria e dalla Dalmazia? Che terrore poteva indurli a rischiare tanto e perdere tutto? Lo ha spiegato Napolitano: “La tragedia di migliaia di italiani imprigionati, uccisi, gettati nelle foibe aveva assunto i sinistri contorni di una pulizia etnica”. Proprio in tempo “di pace”, dal maggio del 1945 in poi, la furia dei partigiani di Tito, che si era già abbattuta su quelle terre italiane nell’autunno del 1943, trovò campo libero: nei giorni in cui nel resto d’Italia gli americani portavano la Liberazione, qui ben altri “liberatori” davano inizio a rastrellamenti notturni, processi sommari, campi di concentramento. Nelle altre regioni si festeggiava la caduta del nazifascismo, qui si instaurava una nuova dittatura comunista. A Roma si ballava nelle strade, da Gorizia in giù, fino a Zara, i colpi alla porta con il calcio di un fucile preannunciavano il rapimento dei capifamiglia, spariti a centinaia nella notte. Poi toccò anche alle donne, ai ragazzi, ai vecchi. Bottegai e medici, maestri e panettieri, sacerdoti e studenti, operai e proprietari terrieri... “Condannato”, si legge sulle carte dei processi-farsa emersi dagli archivi della ex Jugoslavia. In realtà fucilati dietro casa, gettati vivi nelle foibe in Istria, o nel mare con una pietra al collo a Zara. Di migliaia di scomparsi le famiglie non hanno avuto indietro nemmeno le ossa e questa di oggi è l’occasione forte per chiedere all’Italia che finalmente pretenda di sapere dove furono gettate e dia loro una tomba. Tanti bambini di allora, oggi commossi testimoni, raccontano le eroiche odissee delle madri che tutti i giorni andavano a supplicare clemenza dai nuovi gerarchi. Con la fede o gli orecchini pagavano la promessa che quel po’ di cibo portato da casa sarebbe stato consegnato al marito prigioniero. Gli stessi figli confortavano il padre chiamandolo attraverso le grate del carcere… “Fino al giorno in cui non mi rispose più”, raccontano. “Il moto di odio e di furia sanguinaria”, cito di nuovo Napolitano, aveva come obiettivo lo “sradicamento della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia”. Si svuotarono le città e le campagne. L’ultima fu Pola, dopo che nell’estate del ’46 ventotto ordigni fatti esplodere sulla spiaggia affollata di Vergarolla fecero a pezzi cento corpi di italiani e l’ultima speranza di poter restare. VERGAROLLA: la prima strage della nostra Repubblica, più sanguinosa di piazza Fontana, più della stazione di Bologna. Ma in quanti lo sanno? In quale scuola se n’è mai anche solo accennato? La guerra era finita ovunque, ma NON QUI.  E fu la diaspora, “probabilmente la principale violazione dei diritti umani del dopoguerra in Europa”, l’ha definita Debora Serracchiani. Ma oggi? Oggi che cosa resta di tutto questo? E noi, noi della seconda e terza generazione, che ruolo abbiamo? Quali responsabilità? Due, principalmente. La prima: difendere una verità non ancora condivisa. Atti di vandalismo morale contro la nostra memoria sono sempre in agguato e c’è ancora chi giustifica quanto avvenne. Dobbiamo chiarire una volta per tutte un grave equivoco: i nostri esuli furono chiamati FASCISTI solo perché fuggivano da un regime comunista. E ancora oggi residue sacche di ignoranza-dei-fatti giustificano il loro olocausto come “giusta punizione”. Nella realtà i nostri nonni e genitori erano stati antifascisti o fascisti esattamente come tutti gli altri italiani, nella Venezia Giulia come in Campania o in Sicilia… E c’è un secondo enorme equivoco: “Ma di cosa si lamentano ’sti giuliano-dalmati? Hanno perso la guerra, no?”.  NO. La scellerata guerra, scatenata dal delirio nazifascista, è stata persa da tutta Italia, si usciva TUTTI indistintamente dalla stessa sconfitta, a Trento come a Palermo. Eppure per saldare i 125 milioni di dollari, debito di guerra dell’intera nazione, il nostro governo utilizzò le case, le industrie, i negozi, i risparmi di una vita soltanto dei giuliano-dalmati. PROMETTENDO ovviamente INDENNIZZI… poi ridotti ad indegne elemosine. Le loro vite, insomma, hanno riscattato le nostre: vogliamo almeno riconoscerlo? Invece la maggior parte di loro è morta senza aver avuto non dico giustizia, ma almeno il sacrosanto diritto di essere ascoltati, creduti. E aggiungo RINGRAZIATI. Facciamolo adesso, in extremis, finché gli ultimi testimoni sono in vita: di tempo da perdere non ce n’è più… Per questo ringrazio la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, il presidente del consiglio regionale Franco Jacop e l’intera giunta, perché l’essere per la prima volta oggi in questa sede istituzionale legittima senza se e senza ma la vera Storia. Il secondo ruolo che abbiamo è far sì che il Giorno del Ricordo non sia un rito polveroso, ma il vigoroso trampolino per un futuro consapevole di civiltà. L’Europa del 2000 è ormai una casa comune sotto il cui tetto abitano popoli un tempo nemici, e i giovani, da una parte e dall’altra, meritano un mondo nuovo fondato sulla pace e sul progresso condiviso. In Slovenia e Croazia - dove poche migliaia di italiani erano RIMASTI per vari motivi, per non lasciare la propria casa, per non separarsi dai loro vecchi, perché fiduciosi nel nuovo regime comunista, o invece perché dallo stesso regime non ottenevano il permesso di partire – oggi ben cinquanta Comunità di italiani continuano a tenere viva la nostra cultura, la nostra lingua, la nostra millenaria civiltà. Sono stati loro i giorni scorsi a coprire di fiori le matasse di filo spinato erette a dividere in due l’Istria per fermare i nuovi profughi… Per questo, dopo il secolo del nazifascismo e del comunismo tocca a-noi-e-a-loro tenere alta la memoria perché ciò che è stato non avvenga mai più. La memoria, infatti, è l’unica via per la riconciliazione: il passato si supera non rimuovendolo ma da esso imparando. L’esempio di mitezza e dignità dimostrata dai nostri padri, allora, è patrimonio sapienziale che può insegnare molto e non deve andare disperso: hanno sperimentato lo sradicamento totale e la persecuzione, eppure NON HANNO ODIATO. Di recente ho accompagnato una zia a rivedere per la prima volta la sua casa di Pola, lasciata in tutta fretta nel ’47. Partendo, i suoi genitori avevano consegnato le chiavi ai vicini di casa, una famiglia croata: “Entrateci voi, dentro c’è tutta la nostra vita!”. Settant’anni dopo ha bussato a quella porta. Pochi secondi, un lungo sguardo e nessuna parola. Ho visto due teste, intanto divenute bianche, fondersi in baci e lacrime. Nel mio archivio dei ricordi - il mio personale Magazzino 18 - ho tanti oggetti, i lenzuoli ricamati, qualche piatto della nonna, il grande specchio che un tempo ha riflesso i volti dei miei cari scomparsi e che per ciò conservo come il più prezioso dei cimeli. Ma più di tutto questo, conservo gli esempi di integerrima onestà con cui i nostri esuli ovunque hanno saputo ricominciare da zero e farsi valere. Il 30 novembre del 1946 l’Unità questo scriveva di loro: "Non riusciremo mai a considerare aventi diritto di asilo coloro che si sono riversati nelle nostre città non sotto la spinta del nemico, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva l'avanzata dei liberatori. I briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate, non meritano la nostra solidarietà". E a La Spezia, dov’era allestito un campo profughi, un dirigente della Camera del lavoro genovese durante la campagna elettorale del 1948 diceva "In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani”. Agli esuli appena sbarcavano venivano prese le impronte digitali. Cos’altro dovevano ancora sopportare? Anche per tutto questo meritano l’onore e il rispetto dell’Italia: spesso sono stati la parte migliore del Paese! Grazie
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