lunedì 8 dicembre 2014
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​Ho visitato molte industrie, la Breda, la Falck, l’Innocenti. Se c’è un’immagine, una mia fotografia che mi ha svelato un po’ di realtà, essa è legata ad un operaio che mi raccontava il suo lavorare in fabbrica. Mi diceva: «Mi lavori ben, son content perché ogni di’ impari on poo de mi è on poo de’l ferr». E questo voleva dire che c’era un modo di lavorare e di crescere insieme a quello che si faceva, sentire come proprio l’oggetto che si toccava, il gesto che si compiva, che indicava il valore del lavoro. Ma questo dipende dalla persona, dall’uomo. Non è che gli operai sono o erano tutti così. Il senso di essere insieme in un luogo, di fare una cosa per gli altri - non importava tanto che cosa fosse - quanto che si faceva insieme e che l’industria, quel "fare", era dentro la società. Quell’operaio infatti mi aveva aggiunto: «El ved quell la’? Lù el lavora minga, el staa a ca’ cont di permess e poeu el fa i straordinari e el guadagna pussee de mi. L’e’ scrocch. Ma l’e’ mai content, el guadagna pussee, ma el se lamenta semper».Questo tipo di persona semplice è quella che nelle nostre società era legata al fare. Una specie di saggezza legata al fare, al lavoro manuale, anche faticoso certo. Questo ha reso la vita più autentica, infatti quell’operaio imparava contemporaneamente un po’ di sé stesso e un po’ "de’l ferr", della materia.C’erano operai che facevano cose ripetitive, pesanti, sempre le stesse. Ma la figura di una persona dotata del senso del fare e del fare bene si poteva incontrare quasi sempre nell’operaio specializzato, in quelle figure che dovevano sovraintendere nella fabbrica o conoscere dei particolari momenti della produzione. In questi cresceva con orgoglio quella sapienza del fare bene e potevano diventare bravi al pari di un ingegnere. Partecipavano del fare dell’industria, l’industria era in qualche modo loro. Si è persa completamente quella dimensione. Gli operai non ci sono più. Ci si dedica a qualcosa che non serve e così la vita si imbruttisce. In un certo momento storico l’operaio era, nelle piccole imprese, nelle grandi anche, un retaggio della figura dell’artigiano, ma ben presto la meccanizzazione prese il sopravvento. Siamo ancora nel ’56, ’58, ma ben presto, soprattutto con l’introduzione dei calcolatori, si dovrà rendere tutto più veloce, comprimere al massimo le fasi. Un’altra mia immagine, come una fotografia della memoria, si colloca allora nella mia visita allo stabilimento della Mondadori per cui lavoravo negli anni ’50 e ’60. Ero insieme al presidente e i direttori che mi mostravano una nuova macchina - lunga come tutta la larghezza del mio viale Misurata dove abito - in cui entrava la carta e usciva, completamente stampata, impaginata, rilegata e impacchettata, pronta per la postalizzazione, la rivista Grazia. C’era un uomo all’inizio della macchina, seduto che non faceva niente.
Dopo la meraviglia per il processo cui assistevo domando al signore, all’operaio presso la macchina: «Ma lei che cosa fa, perché sta qui?». «Io guardo» (con un certo orgoglio). «Ma che cosa guarda?». «Io controllo - disse - che la macchina non si rompa, non si inceppi». «Ah», dissi, e gli risposi: «E quando si inceppa la aggiusta?» - continuavo a pensare che lui lavorasse con quella macchina. «No - mi disse con stupore - io non so nulla di quella macchina! Io sono qui per chiamare il tecnico, chiamo la ditta che ha costruito questa macchina e poi ci penseranno loro».Era reso inutile, era qualcosa di posticcio, non era più la macchina costruita dall’uomo, ma essa che in qualche modo procedeva da sola e lo asserviva, spegnendo il suo tempo, la sua partecipazione ed energia.Nel fare, dal dentro del lavoro, viene invece il modo con cui poi tu parli del mondo, con cui lo significhi. È come quando progressivamente e con un’accelerazione è scomparso il dialetto a Milano. Prima era il modo normale, quotidiano, spontaneo di parlare, poi, con una forzatura, si è voluto sostituirlo, perché si è ritenuto che fosse troppo povero, poco elegante. E così è come il fare che è stato sostituito dalla macchina e ha reso una comparsa la nostra umanità. Per questo ho scelto come lingua della mia poesia il dialetto.Anche quando si è voluta definire la persona attraverso la classe, nascondere l’io dietro la funzione sociale, allora quello che è il valore di questo legame tra il fare e la vita è iniziato a venire meno. Uno si è definito attraverso qualcosa di estraneo al suo tempo, al suo fare, al suo vivere.L’esperienza del fare avvicina l’uomo a se stesso. Questo è il lavoro. Ma si è introdotta forzatamente una crepa, una separazione. Si diceva che l’uomo non poteva voler bene a quello che faceva, si è insinuata una divisione tra colui che lavora e quello che fa. Come se quello che era come uomo dipendesse da quello che faceva e siccome quello che faceva era parte di un ingranaggio lui non esisteva, il lavoro era una sospensione, un’alienazione della vita.
Il fare, il vivere comporta sempre il porsi una domanda: cosa accade in me quando io vivo un’esperienza? Più ho consapevolezza di me, più penetro dentro di me e più io arrivo a quel punto dove si palesa che la verità è indipendente da me. La poesia è tipico esempio di questo e ha il suo punto d’incontro con la fotografia, anche se in questa c’è di mezzo una macchina, ma essendo fatta di regole semplici non separa dall’esperienza.A Milano c’è un detto che è significativo positivamente e negativamente: «Fa’ e desfa’ l’e’ tutt on lavora». La città cambia continuamente - ai tempi si sono lamentati anche il Porta, il Tessa. È la città della gente che lavora, della gente attiva. Questo però ha il suo aspetto negativo perché una delle cose che piace al potere è cambiare sempre; allora come fai a prendere consapevolezza se non hai ancora imparato dove vivi, che subito devi vivere in modo diverso, devi cambiare i tuoi rapporti, il tuo modo di vivere per le strade. Milano è molto cambiata. Non si sentono le voci dei bambini che giocano. Negli anni ’50 giocavo per strada al pallone, arrivava una macchina e si fermava; aspettava che noi andassimo sul marciapiede, dopo di che passava e noi in strada tornavamo a giocare. Le voci dei bambini, cosa vuol dire? È una cosa molto importante: attraverso i bambini le famiglie si conoscevano. Ci incontravamo e c’era la vita in comune, c’era la città. I luoghi di incontro o di lavoro sono molto importanti anche sotto questo profilo, perché alla gente danno il senso della comunità, la comunità sociale. E la comunità sociale diventa fattiva, reale quando si dà il senso all’uomo della conoscenza di sé e quindi dell’attenzione all’altro perché si è attenti a se stessi. Come farò a dire che amo una persona se non so neanche chi sono?
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