sabato 16 dicembre 2017
Parla il sovrintendente dell'Opera di Roma: «Nel 2013 eravamo sull'orlo del fallimento, ora i bilanci sono in pareggio. Basta autoreferenzialità. Le stagioni vanno programmate guardando al territorio»
Carlo Fuortes: «Serve un federalismo culturale per le fondazioni liriche»
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La a parola è di quelle che pronunciano spesso al Nord. Con un valore politico. Fa quindi un certo effetto sentire evocare il “federalismo” a due passi dal Quirinale. Non in piazza, ma in un teatro. Luogo, certo, politico. Perché la cultura «è servizio pubblico» che deve essere declinata sul territorio «guardando alla storia e alla tradizione locale e al pubblico al quale ci si rivolge» E quello evocato da Carlo Fuortes, sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma, è un «federalismo culturale » per le fondazioni lirico-sinfoniche. Archiviato il successo de La damnation de Faust di Hector Berlioz, che con la bacchetta di Daniele Gatti e la regia di Damiano Michieletto ha inaugurato la nuova stagione dell’Opera, Fuortes è al lavoro alla sua scrivania. «L’apertura è il manifesto della stagione e non si può fare solo per ingraziarsi un certo tipo di pubblico senza rischiare troppo», racconta Fuortes che in meno di quattro anni, con scelte artistiche coraggiose, ha risollevato le sorti del teatro lirico capitolino. «Sono arrivato a fine 2013 e l’Opera era sull’orlo del fallimento. Ora controlliamo il debito e abbiamo i bilanci in pareggio».

Perché, Fuortes, chiede ai legislatori un federalismo culturale per le fondazioni lirico-sinfoniche?

«Sono stato commissario straordinario al Petruzzelli di Bari e all’Arena di Verona. Ora sono sovrintendente all’Opera di Roma dopo aver lavorato, sempre nella Capitale, al Parco della musica. Ho potuto verificare che ogni teatro è un caso a sé: ogni volta ho dovuto ripartire da zero, capendo i meccanismi interni, ma soprattutto la storia e le tradizioni del territorio. Le “regole” che avevo in mano, però, quelle dettate dal legislatore, erano sempre le stesse, al Nord come al Sud: norme utili per tutti sono un po’ un limite e alla lunga potrebbero diventare un ostacolo non da poco».

In attesa di un cambio di rotta come lavorare?

«Programmando le stagioni guardando al territorio. Lavoriamo non su una successione di titoli, ma su progetti artistici in un necessario mix tra tradizione italiana, novità e titoli poco frequentati. Nuove produzioni e coproduzioni con teatri italiani e stranieri, un insegnamento della crisi che ci ha spinto a trovare modalità per elevare il valore artistico ed abbattere le spese».

Questa la ricetta del successo dell’Opera di Roma?

«Non so se definirla ricetta. Di certo quello che mettiamo in cartellone deve essere un programma pensato per un pubblico perché è lui che deve sostenerlo venendo a teatro. Uno dei mali degli ultimi decenni della cultura è stata la troppa autoreferenzialità: dobbiamo pensare che siamo servizio pubblico e il primo nostro interlocutore è proprio l’ascoltatore. L’Opera negli ultimi anni ha formato un nuovo pubblico, curioso, attento e aperto al nuovo».

Romani? Turisti?

«Roma ha un bacino di 3 milioni di utenti, sicuramente ci rivolgiamo a loro. Ma abbiamo anche turisti che passano dalla Capitale oltre a melomani che vengono da tutta Italia stimolati dalle proposte in cartellone. Il 90% del nostro pubblico acquista il biglietto, solo il 10% sono abbonati: un elemento da considerare per non condizionare le scelte artistiche. Lo scorso anno la biglietteria ha portato nelle casse del teatro 11 milioni di euro con un incremento del 65%».

Con Santa Cecilia, l’altra fondazione romana, rivalità o collaborazione?

«Dopo anni in cui è stato difficile anche solo parlarsi oggi collaboriamo. Il successo di uno non è necessariamente a danno dell’altro perché la domanda di cultura genera altra domanda».

Come stanno i vostri conti?

«È tre anni che chiudiamo i bilancio in pareggio e riusciamo a far fronte ai debiti pregressi che, comunque, restano. Sono arrivato a fine 2013 con una situazione difficile, il 2014 è stato un anno complesso con l’addio di Riccardo Muti. Ma proprio in quel periodo siamo riusciti a stringere un accordo soddisfacente con i lavoratori, un’intesa che ci ha consentito di lavorare bene arrivando ai risultati positivi di questi anni. Il nostro bilancio è di 53 milioni di euro: 11 milioni arrivano dalla biglietteria, quattro dagli sponsor privati, ma Roma non è una città industriale con grandi aziende che decidono di sostenere la cultura. Il 63% delle entrate sono contributi pubblici».

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