giovedì 11 dicembre 2014
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Venerdì alle 16, nell’aula magna della Lumsa, verrà presentata l’opera Recte sapere. Studi in onore di Giuseppe Dalla Torre. Intervengono l’attuale rettore della Lumsa Francesco Bonini, il cardinale Attilio Nicora, Ombretta Fumagalli Carulli, Carlo Cardia, Michele Sesta, Paolo Mengozzi, Daria de Pretis. L’opera (Editore Giappichelli, Torino) nasce per iniziativa dei suoi allievi, oggi docenti in varie università italiane e raccoglie i contributi di 121 autori, colleghi docenti (tra cui 8 cardinali) di università pontificie e italiane che hanno accolto l’invito a rendere omaggio all’ex rettore Giuseppe Dalla Torre (foto). È suddivisa in 3 volumi: I. Contributi di diritto canonico; II. Contributi di diritto ecclesiastico; III. Miscellanea, per un totale di oltre 1.800 pagine. Qui anticipiamo uno stralcio dello scritto del cardinale Nicora sul tema «L’impegno dei cristiani nella vita politica e civile».

Che cosa vuol dire che i cristiani sono stranieri cioè “abitano accanto” (pàroikoi)? Vuol dire che sono dentro a questa società terrena però vi sono dentro con il piede alzato, come gente che non ha qui la propria cittadinanza definitiva; non è necessariamente estraneità, è alterità perché la vera cittadinanza a cui li ha abilitati e destinati il battesimo è quella della città celeste, della Gerusalemme santa, la vera capitale dello Spirito cristiano, quella città che non è costruita da mano d’uomo – dirà altrove il Nuovo Testamento – ma è preparata da Dio; quella città, dirà sant’Agostino, «cuius rex veritas, cuius lex caritas, cuius modus aeternitas». Agostino è sempre folgorante: «quella città il cui re è la verità, la cui legge è l’amore, la cui misura è la dimensione dell’eterno»: là sono incamminati i cristiani; il loro destino non si esaurisce in questa società terrena, per quanto essi giustamente rivendichino un’appartenenza anche mondana, con gli obblighi che ne derivano. [...] Perciò noi stiamo qui, ma come stranieri; il concetto è ribadito dall’altra parola che troviamo nella Prima Lettera di Pietro, «pellegrini » (parepidèmoi), cioè come gente che è di passaggio; qui ha fatto tappa, ma sta camminando oltre, perché bisogna andare avanti. I cristiani sono qui in certo senso come dei “migranti”; sono qui di passaggio, in soggiorno temporaneo, e portano dentro al cuore l’attesa profonda di andare in Germania, in Canada o negli Stati Uniti. Il cristiano è dunque nel mondo come uno straniero e un pellegrino: sono due espressioni forti, che abbiamo purtroppo largamente perduto non solo nella consapevolezza diffusa ma nella stessa nostra predicazione. Allora, se i cristiani sono tali perché il battesimo li ha configurati così per dono di grazia, essi sono chiamati ad astenersi «dai desideri della carne che fanno guerra all’anima » (1Pt 2,11). Se il loro destino si esaurisse quaggiù, sarebbe comprensibile lasciarsi prendere da ogni tipo di passione di possesso e di godimento, perché qui soltanto si potrebbe trovare la risposta appagante e risolutiva; se invece siamo qui come stranieri e pellegrini, allora bisogna astenersi da queste epithumìai, desideri prepotenti che ci fanno schiavi e ci travolgono.  Nell’espressione «desideri della carne» c’è anche la componente di una sessualità sfrenata e sregolata, ma non solo questo: la «carne» è la condizione umana che pretende di cancellare Dio dal suo orizzonte e di fare dell’io il proprio assoluto. I desideri che derivano da questo modo di concepire la vita diventano passioni sfrenate, ingordigia, cupidigia, ricerca del potere e del successo e «fanno guerra all’anima», cioè contrastano con la natura profonda dell’uomo e con la sua vocazione ultima. Il cristiano, che ha avuto la fortuna di accogliere nella fede la rivelazione del Vangelo e il dono del battesimo, consapevole di essere straniero e pellegrino deve astenersi da tutto questo per profonda coerenza interiore, ma anche per una ragione apologetica. [...] Un ultimo tratto molto forte e provocante: che cosa comporta tutto ciò in concreto? si domanda l’apostolo. Quale dev’essere lo stile dei cristiani? Ecco l’espressione forse più bella: «Comportatevi da uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio» (1Pt 2,16). Qui c’è il cuore di tutto: sono intrecciati insieme due concetti che nella cultura corrente sono ritenuti contraddittori: uomini liberi-servitori di Dio. Gli “stolti”, nel senso di non capaci di percepire gli autentici valori evangelicamente lievitati, tendono a dire che essere uomini liberi significa fare quello che di volta in volta io decido essere utile a me, ai miei, alle mie idee, salvo al massimo non danneggiare gli altri, se ci si riesce; mentre servire Dio vuol dire perdere la propria libertà: questa è la mentalità di allora come di oggi, ma che oggi certamente si diffonde in una forma assai penetrante e, di fatto, intollerante. Qui invece il paradosso è radicalmente superato perché l’apostolo dice: potrete essere veramente liberi, cioè capaci di non servirvi della libertà come di un velo per coprire la malizia, solo se saprete essere anzitutto servitori di Dio. È Dio la garanzia della vostra libertà, non è il nemico della vostra libertà; è Lui che, avendovi chiamato a un destino non riducibile alla logica di questo mondo, che si compirà nella città definitiva ed eterna, ed avendovi comunicato la sua forza liberatrice attraverso il battesimo, e avendovi dato la grazia di Gesù Cristo che vi può conformare come uomini nuovi, vi può rendere liberi come lo stesso Gesù Cristo, cioè capaci, in nome e per amore di Dio, di amare e di servire gli altri fino a spendere per loro la vita. Questa è la libertà cristiana. A quel punto non ci potrà più essere ambiguità, non si potrà più usare della libertà come di un velo per coprire la malizia.   La libertà abusata è una triste attualità. Ormai l’elencazione dei diritti di libertà si è fatta così puntuale da far pensare che forse non c’è più nulla da aggiungere nei testi delle grandi dichiarazioni sui diritti umani; ma se ci domandiamo se a questo accrescimento della consapevolezza dei diritti di libertà e delle relative tutele si è accompagnata una crescita umana e sociale che possa far concludere che siamo diventati uomini migliori, non so quale possa essere la risposta, perché troppe volte la libertà diventa davvero un velo per coprire la malizia.  Pur evitando sciocche polemiche, se guardiamo alla vicenda quotidiana non possiamo non esser preoccupati. Non c’è soltanto una crisi di classe dirigente politicoistituzionale, c’è una diffusa consumazione di valori che in qualche modo ci fa complici. Dovremmo guardare più in profondità al corpo sociale; esso è da apprezzare e da animare perché solo una società viva può sostenere delle istituzioni sane; e però sorge la domanda: ma la nostra società è davvero viva e ricca di fedeltà, di onestà, di rigore, oppure nel nostro piccolo, ciascuno di noi, usa ogni giorno la libertà come un velo per coprire la malizia? Si comincia solitamente dal poco, col chiudere un occhio. Si dice: «Vedo che stanno imbrogliando ma non tocca a me intervenire, che cosa c’entro io?». Poi si va oltre: «È un amico che ho da sempre conosciuto, come si fa a dirgli di no?». Il mio antico professore di morale in seminario ci metteva in guardia contro le raccomandazioni. Ci diceva: «State attenti, perché se cominciate, c’è una logica inarrestabile: si comincia dai parenti, poi si passa agli amici, poi agli amici dei parenti, poi ai parenti degli amici, e non ci si ferma più».

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