mercoledì 26 aprile 2017
Ripubblicati tre rari racconti che segnano lo spartiacque fra due modi di narrare dello scrittore siciliano
Elio Vittorini nella sua casa milanese in una foto del 1955

Elio Vittorini nella sua casa milanese in una foto del 1955

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Erano usciti molti anni fa presso piccole case editrici o riviste e mai più ristampati; ora Bompiani li manda ora in libreria per la prima volta insieme: «La mia guerra», «La garibaldina», «Erica e i suoi fratelli» sono i tre rari racconti di Elio Vittorini (1908-1966) di cui Giuseppe Lupo cura la pubblicazione sotto il titolo «Tre storie» (pp. 272, euro 13); in questa pagina stralci dell’introduzione dello stesso Lupo.

Chi frequenta le opere di Elio Vittorini, sa che spesso ci si imbatte in qualche romanzo o racconto iniziato e poi rinviato a più tardi o addirittura abbandonato in vista di altro. Il vero problema non è quello di cominciare un’opera, ma di continuarla dopo aver subito un’interruzione, cioè di verificare la tenuta di quel tipo di scrittura all’indomani di un qualsiasi avvenimento che ne abbia causato la sospensione.

In effetti, a guardar bene i fatti che direttamente e indirettamente interagiscono con Erica e i suoi fratelli e con La garibaldina, scopriamo un arco cronologico non tanto esteso, ma intenso, in cui si delinea una serie di grandi mutamenti: la guerra civile spagnola, la guerra d’Africa, il secondo conflitto mondiale. Se è vero che ogni libro è figlio di una certa epoca, è altrettanto vero che di quell’epoca tale libro non può non subire tanto i disastri quanto i trionfi, il male come il bene. Se i personaggi vittoriniani respirano un’aria di catastrofe, com’è quella tra gli anni Trenta e i Cinquanta, cambia l’atteggiamento dei singoli individui nei confronti del destino e si modifica il concetto di civiltà e di progresso.Inutile cercare altrove i motivi per cui Vittorini, dopo il luglio del 1936 e il maggio del 1950, non porterà rispettivamente a termine Erica e i suoi fratelli e La garibaldina. L’urgenza con cui irrompono nel suo immaginario i fatti di Spagna (nel primo caso) e alcuni avvenimenti non del tutto dichiarati ma che si rapportano con le trasformazioni in una Sicilia postbellica (nel secondo) lascia trapelare qualcosa che obbliga i due progetti narrativi a dialogare con gli avvenimenti storici, a inserirsi cioè dentro il respiro di un tempo in tumultuoso movimento. C’è però un dato comune. Pur se rimasti allo stato di abbozzo, i capitoli iniziali dei due romanzi evidenziano il desiderio di elaborare un discorso sulla memoria come infanzia del tempo, sulla memoria come condizione aurorale di ciascun individuo nella Storia di tutti, in relazione a quanto poi ciascun individuo stabilisce con le vicende intorno a lui. Vittorini ancora non si è avviato sulla strada che conduce alla riflessione sulla condizione servile per la quale qualche anno dopo avrebbe escogitato la formula del mondo offeso: una definizione che avrà molto a che vedere con il tema della rassegnazione e offrirà una chiave interpretativa per intendere i rapporti tra gli uomini e i non-uomini, tra chi domina e chi subisce.

Ma arriverà presto a contatto con questo mondo offeso, a partire da Erica e i suoi fratelli, che continua a essere un’indagine sull’infanzia, continua a mantenere uno sguardo ilare sul tragico intorno all’infanzia, anche se di tutt’altra natura. La narrazione si concentra su una famiglia che vive in condizioni di estremo disagio, senza genitori, dove tutto è affidato alla maggiore dei figli, Erica appunto, costretta a conoscere la vita, a diventare adulta, a scoprire il mondo osservandolo da dentro le mura di una casa fatiscente. Mentre i fratelli che compaiono nel titolo non sono che fantasmi, Erica è l’unica presenza viva e concreta dell’intero abbozzo, il solo personaggio a cui viene riservato il compito di capire, pensare, sentire, meditare, verificare: tutte azioni che si rapportano al tema della conoscenza come veicolo per raggiungere il traguardo di un rapporto maturo con il resto dell’umanità.

Il discorso che Vittorini sviluppa intorno al candore di questa ragazza apparentemente ingenua e incolore induce a pensare a una forma di bildungsroman che procede per stratificazioni (come già nel Garofano rosso), quasi la generazione di adolescenti da lui raccontata avesse continuamente bisogno di sollecitazioni interiori per affacciarsi all’età adulta, necessitasse cioè di una percezione ancora di tipo primordiale: il sentire per arrivare al pensare. Lo schema funziona perfettamente nei 22 capitoli portati a termine entro il luglio 1936. Una volta abbandonato il progetto, però, diventa arduo riprenderlo perché – ed è questo un ulteriore motivo di riflessione – sarà per sempre modificata la maniera di narrare. «Il modo in cui mi sono abituato a raccontare da Conversazione in poi non è esattamente lo stesso in cui questa storia è raccontata – aggiungerà Vittorini rivolgendosi a Moravia e Carocci su "Nuovi Argomenti" –. Oggi io sono abituato a riferire sui sentimenti e i pensieri dei personaggi solo attraverso le loro manifestazioni esterne, o almeno attraverso le apparenze che sentimenti e pensieri possono assumere nell’aspetto dei personaggi stessi».

Dire che Conversazione fa da spartiacque tra la stagione di Erica e i suoi fratelli e quella della Garibaldina potrebbe apparire un azzardo, eppure non lo è. Questa ipotesi, in effetti, darebbe il senso del passaggio di testimone in termini di strutture narrative – dal guardarsi dentro al guardare fuori – ed è un po’ come segnalare un cambio di risultati negli esiti di una scrittura che fino a quel momento aveva raccontato i giovani secondo una prospettiva interiore (così è nel caso di Erica, ma anche nel Garofano rosso) e che adesso invece si avvale di parametri rinnovati, uno soprattutto: non conta ciò che Erica sente o pensa, ma come si manifesta ciò che sente o pensa.Lo sguardo verso l’esterno riesce a soppiantare lo sguardo verso l’interno, si fa carico di un processo di straniamento o di estraniazione, dando così al personaggio la chance di recepire gli accadimenti accreditandoli a causa del suo sentire e del suo pensare. Il dato convince ancora di più se si pensa che proprio in quegli anni, complice il trasferimento da Firenze a Milano, Vittorini compie la medesima operazione modificando l’orizzonte dei propri interessi: da quelli pittorici a quelli fotografici e cinematografici.

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