mercoledì 26 marzo 2014
​Quello del 1914-18 fu un conflitto fotogenico, sia per la presenza di professionisti ufficiali dell’esercito (reclutati per «edulcorare» la realtà ad uso dell’opinione pubblica), sia per gli scatti realizzati dai soldati stessi. E molto più crudi e veritieri.
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«Su pei monti, su pei monti che noi sare­mo/ pianteremo, pianteremo l’accam­pamento./ Brindere­mo, brinderemo al reggimento...», e molti soldati lo hanno anche fotografato. In tanti partirono per il fronte con il mo­schetto e con macchine fotografiche mol­to pratiche e maneggevoli come quelle che la Kodak aveva da poco messo in commercio. Questi fotografi-soldati, per lo più ufficiali, ci hanno reso le im­magini della Gran­de Guerra per come è stata: lunga, este­nuante, crudele, sterminatrice, fati­cosa. Una visione, quindi, ben lontana da quella che offri­va in quegli anni la propaganda bellica. La prima guerra che la fotografia incontrò lungo la sua parabola fu quella di Crimea. Un fotografo in particolare, l’avvocato Ro­ger Frenton, fu arruolato con il compito di tranquillizzare l’opinione pubblica inglese. Dal fronte l’inviato del Times, William Howard Russel, aveva scritto articoli su que­sto conflitto che falcidiava la migliore gio­ventù inglese. Il duca di Newcastle, David L­loyd George, segretario di Stato per la guer­ra, con l’aiuto dell’editore Thomas Agnew organizzò la missione del fotografo con il compito di fornire immagini rassicuranti. Fotografie d’azione, all’epoca del collodio umido che richiedeva tempi di posa da 10 a 20 secondi (un’eternità in fotografia!), e­rano impensabili. Frenton compone le sue immagini: l’accampamento, gli ufficiali che preparano piani di battaglia, soldati che si riposano. La Guerra di Crimea sem­brava un’innocua esercitazione militare. Eppure solo in combattimento costò 128 mila morti (anche italiani). Tanto lutto non c’è nella fotografia, che non svolse né il ruolo di documento né quello di testimo­nianza, ma una funzione politica, anche dicendo il non vero.L’altra guerra che vide scendere in campo una schiera di fotografi fu quella di Secessione americana, mossi questa volta da un sincero scrupolo di obiettività. Il Gardner’s Photo­graphic Sketch Book of the War  di Alexan­der Gardner non censura né i morti né il dolore.Dell’«inutile strage», come nel 1917 papa Benedetto XV definì la Prima guerra, ab­biamo  solo in Italia oltre 150 mila lastre e pellicole fotografiche a opera di 600 foto­grafi, tra quelli arruolati con questo preci­so compito nel Servizio fotografico dell’E­sercito italiano (Sfei) e gli ufficiali che fo­tografavano per proprio conto, benché la cosa fosse ufficialmente proibita. Stessa co­sa avveniva sull’altro fronte con il Kpq (K­riegspressequartier), il servizio fotografico dell’esercito austro ungarico. Anche sul­l’altro fronte, molti soldati andarono in trin­cea con il moschetto e la macchina foto­grafica. Abbiamo così due album ideali del­la Grande Guerra: uno ufficiale in cui compare anche per la prima volta la fotografia aerea, e un altro realizzato su iniziativa dei soldati che inviavano le fotografie a casa assieme alle cartoline postali illustrate.Se ne stamparono a milioni in tutta l’Eu­ropa in guerra, da e per il fronte, unico mezzo possibile di comunicazione tra il fo­colare domestico e la trincea. La stragran­de maggioranza di questi fotografi è ri­masta anonima. Qual­che nome però si ri­corda: il maggiore Al­berto Albertacci, il te­nente medico Floria­no Ferrazzi, il mare­sciallo Aldo Locatelli, il bersagliere Gino Ve­nuti che invia «all’a­mata Clara» due al­bum con 500 positivi. Lo stesso fa l’austria­co Adolf Nyulta con la divisa di un altro colore, che ci ha traman­dato un album di ricordi di guerra. Questi militari riprendono la morte, i feriti, i sol­dati straziati, l’attività nelle retrovie.La fotografia ufficiale della Grande Guer­ra, però, come facevano del resto le carto­line con immagini edulcorate, «non ebbe un semplice ruolo documentario – scrive Diego Mormorio – ma, finalizzata alla pro­paganda patriottica, divenne anch’essa strumento militare». Del resto, le foto sca­brose o troppo forti non avrebbero trova­to spazio nei giornali illustrati. Rimango­no nei cassetti le immagini dei feriti e quel­le che svelavano le in­dicibili condizioni in cui i soldati vivevano la trincea. «Con il con­trollo della circolazio­ne delle immagini – scrive lo storico Geor­ge L. Mosse – si voleva fornire all’opinione pubblica e agli stessi combattenti un’accet­tabile immagine della guerra, per forza di co­sa limitata da precise forme di censure». Avviene quella che lo storico del fascismo chiama la «banalizzazione della guerra», necessaria per affermare il consenso dei Paesi al conflitto. Il consenso si era levato in termini entusiastici specie in Francia e in Germania, dove viene costruito il mito dell’esperienza della guerra. Questo mito, nota sempre Mosse, «fece buon uso dei ma­teriali visivi allo scopo di depurare, dram­matizzare e romanzare la guerra». L’Italia non fu da meno, con i futuristi che esalta­vano una virilità militante che glorificava la guerra («sola igiene del mondo»), men­tre in Germania faceva da sponda, sebbe­ne con argomenta­zioni diverse, l’e­spressionismo con l’elogio dell’ecce­zionale e dell’orrido e l’esaltazione della guerra.La fotografia, alla fine del conflitto, darà due immagini della Grande Guerra: quella ufficiale, filtrata da un processo di  banalizzazione, mostra una guerra senza tragedia e senza dolore, e quella di una guerra non detta, quella reale, che dice dello strazio dei corpi, della disperazione e della morte che rappresentò il suicidio dell’Europa civile.
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