domenica 24 ottobre 2010
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Il cinema è così: si vive e si muore su uno schermo. E su uno schermo si resuscita. I personaggi si ricordano, mentre gli attori, specie quando si sono smarcati dallo star system, quando con quel sistema hanno fatto a pugni, camminano sempre sull’orlo dell’oblio. Quattro anni fa, Francesco Nuti cadde in quel precipizio, volando dalle scale di casa, battendo la testa, sprofondando nel coma; poi il risveglio silenzioso, nell’immobilità di una sedia a rotelle, in parole che non possono dirsi a voce. Nessuno lo ha visto più, se non in qualche sparuta scheggia televisiva, in un sonnacchioso pomeriggio davanti al piccolo schermo o a orari improbabili, dove i suoi personaggi, Pinocchio, il Signor Quindicipalle, Caruso Pascoski, sfilano con quella comica malinconia che Nuti ha stampata in faccia.Nuti non è morto, il toscanaccio triste, più Buster Keaton che Roberto Benigni, che di cadute ne ha vissute tante, si vuole rialzare, ci sta provando. E lo manda a dire con un film, non suo, ma di Mario Canale, Francesco Nuti… e vengo da lontano. Sicuramente non è da queste parti, fatte di flash, di tappeti rossi, di volgarità cinepanettonesche, che viene il regista. Lui torna, a suo modo, con la fragilità che certi artisti hanno bisogno di mostrare, dal suo mondo di stralunato surrealismo, per ora costretto allo spazio di una stanza, ma affidato a occhi che ancora si muovono vivaci, alla mano che scrive, alla testa che vola. Mentre accanto, silenziosamente, ascoltano il suo silenzio la compagna Anna Maria Malipiero, la figlia Ginevra, la mamma Anna, il fratello medico Giovanni. È con loro che Nuti sta tentando la risalita. L’ultima, la più difficile, per uno che da 15 anni sembra predestinato al buio: da quel flop, quel peccato originale del 1994 intitolato Occhiopinocchio, un disastro che comincia ad allontanarlo dal pubblico dopo la sbornia del successo degli anni Ottanta. Poi ci furono tre film, l’ultimo come regista nel preistorico 2001, e tanta rabbia. Sfogata nell’alcol, in umiliazioni, nella depressione, in voci di tentato suicidio. Tutto questo c’è stato nell’animo di Nuti, un caos raggomitolato in un bel talento, che trovava espressione in quei film dallo stile subito riconoscibile.Indimenticabile artista dimenticato, parcheggiato alla periferia del conformismo commerciale di un’Italia cinematografica senza identità: sarà celebrato da vivo, quasi un invito a tornare e a non mollare, dal Festival di Roma, il 5 novembre, quando sarà proiettato il ritratto-omaggio di Canale. Una carrellata dentro un comico spaventato guerriero votato alla sconfitta, accompagnati da chi con lui ha percorso un pezzo di strada personale e professionale, da Clarissa Burt a Giuliana De Sio, da Benigni a Giovanni Veronesi, i due grandi amici tra i pochi che gli sono stati vicino. A Roma, salvo sorprese, non ci sarà a prendere gli applausi, però ci sarà la sua voce per iscritto: in una lettera, la sua voglia di vivere e qualche progetto. Prima del silenzio, stava per partire con Olga e i fratellastri Billi; il cast e il resto erano pronti.Tornerà sul set? Nessuno azzarda. Intanto si immerge nei testi delle canzoni che ama ancora scrivere. Si dice ne abbia pronta una, intitolata Marilyn, forse in omaggio a quella donna che, sotto la diva, gli assomigliava tanto. O forse è la maschera con cui lui ancora una volta vuole raccontarsi. Un altro specchio, come il suo cinema.
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