mercoledì 13 febbraio 2013
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​Altruisti per natura. Programmati biologicamente per entrare in relazioni positive con gli altri. Naturalmente inclini alla sensibilità verso gli altri e alla condivisione delle loro sofferenze. Macché l’hobbesiano «homo hominis lupus», macché «nuovi barbari», l’uomo è portato per istinto a fare del bene. E questo istinto è alla base della sopravvivenza del genere umano. Altro che «Teoria dei giochi», con i suoi modelli di comportamenti matematici che tengono conto delle scelte dell’avversario in un’ottica di conflitto di interessi: troppo arida e artificiale per poter spiegare la realtà delle relazioni sociali «buone» tra le persone, l’intreccio di emozioni che porta a pensare al bene degli altri così come al proprio. È una lettura confortante, quella dell’ultimo saggio della psicologa Silvia Bonino, professore onorario di Psicologia dello sviluppo a Torino, dove ha insegnato per molti anni, autrice di decine di libri scientifici e divulgativi. In Altruisti per natura (Editori Laterza, pagine 148, euro 12) raccoglie e rielabora tutti gli studi pubblicati negli ultimi anni che dimostrano come «l’altruismo, definito come l’aiuto agli altri rinunciando a qualcosa per sé, consapevolmente o inconsapevolmente, fa parte della più generale capacità umana di stabilire relazioni con gli altri e si basa sulla tendenza a riconoscerli come esseri umani simili a sé, nei quali rispecchiarsi e immedesimarsi». Professoressa Bonino, quali sono i fondamenti biologici della «socialità positiva» da lei descritta?Sono numerosi. Vanno dalla tendenza dei neonati a cercare il contatto sociale e a stabilire legami di attaccamento, alla loro capacità di rispondere positivamente (per esempio con il sorriso) agli stimoli sociali (primo fra tutti il volto) e solo a questi. C’è poi la tendenza, anch’essa precocissima, a imitare gli altri e a condividerne gli stati emotivi, che ha nei «neuroni specchio» il suo fondamento neurofisiologico e su cui si basa l’empatia. A tutto questo vanno aggiunti, negli adulti, la capacità di riconoscimento dei segnali infantili e i gesti di conforto.Eppure si fatica a pensare all’uomo come «altruista per natura», vista l’aggressività e la violenza che pervadono la nostra società. Come risponde a chi, anche tra gli scienziati sociali, sostiene l’intrinseca malvagità dell’essere umano?Credo che questa visione sia frutto di pregiudizi: negli ultimi due secoli la nostra cultura ha messo l’accento sulla socialità negativa, dimenticando altri aspetti che pure molti filosofi del passato avevano sottolineato e che oggi sono sorretti da molti studi sulla psicologia dei bambini piccoli, sul confronto tra culture diverse e anche sulle neuroscienze. È innegabile che nell’uomo esiste una tendenza all’aggressività molto primitiva, ma esiste anche una socialità positiva senza la quale la storia umana non è comprensibile. Essa riguarda la capacità di stabilire legami profondi, di condividere, di entrare in sintonia con gli altri, di aiutare e di cooperare, che vuol dire lavorare insieme per degli scopi comuni.Perché una società più altruista, come lei sostiene nel saggio, è una società più votata al successo?L’uomo si è evoluto grazie alla socialità e alla capacità di andare incontro agli altri. Senza questa capacità le società non resistono, stanno male, e forse la sofferenza che viviamo oggi è causata anche da questo. Abbiamo enfatizzato troppo gli aspetti egoistici, edonistici, li abbiamo considerati gli unici possibili ma abbiamo bisogno di recuperare l’altruismo che esiste nella società. Altruismo non come atto eroico, ma come attitudine nella vita quotidiana. Quali vantaggi ha l’altruismo a livello individuale?I numerosi studi compiuti sull’argomento concordano sul fatto che ad essere altruisti, ad esempio prestando il proprio tempo in attività di volontariato, le persone si sentono meglio. Anche la depressione, il male del nostro tempo, si riduce attraverso l’aiuto agli altri».E a livello di società?C’è un maggior benessere sociale perché attraverso la reciprocità e la collaborazione positiva tra le persone si riescono a raggiungere obiettivi che altrimenti sarebbero fuori portata. Esiste un circolo virtuoso dell’altruismo?Abbiamo detto che l’altruismo favorisce il benessere individuale e della società. Questa condizione di benessere, a sua volta, favorisce l’altruismo: quando le persone sono tristi, depresse o infelici sono meno predisposte all’altruismo perché sono chiuse in se stesse, prese dai propri problemi, non attente agli altri. Il circolo virtuoso dell’altruismo, allora, è questo: fare del bene fa star bene. E quando si sta bene si è più disponibili verso gli altri. Lei, da laica, nel suo libro affronta con interesse il cristianesimo. In base ai suoi studi, possiamo dire che il comando di Gesù «Ama il prossimo tuo come te stesso» ha anche un fondamento biologico?Questo comando, così come "Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te» coglie due aspetti importanti: è l’amore per sé stessi, in primis, che spinge ad amare gli altri proprio perché simili a sé. Gli psicologi per una sorta di pudore non usano il termine amore: preferiscono parlare di rispetto, di riconoscimento dell’altro come simile. Il concetto però è identico: l’altro appartiene come me all’umanità, alla specie umana. Psicologi, etologi e neuroscienziati oggi concordano sul fatto che questo riconoscimento dell’altro ha un fondamento biologico. È una predisposizione, appunto, che noi possiamo coltivare con la cultura oppure non coltivare.Perché con la cultura?La cultura vuol dire consapevolezza, riflessione su di sé. Da un lato essa offre spazi di libertà all’essere umano, ma può anche, al contrario, porre limiti alle sue potenzialità. Nella storia più volte è accaduto che l’uomo abbia costruito categorie in cui l’altro non è più un essere simile a sé ma un essere subumano, non partecipe della stessa umanità, basandosi ad esempio sul colore della pelle, sulla razza, sulla religione. La cultura, dunque, può andare contro la predisposizione biologica al riconoscimento dell’altro. Tutto questo va contrastato con forza.
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