venerdì 21 ottobre 2011
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La speranza nella vita eterna «appartiene all’economia del dono». Nell’economia di mercato, invece, l’eternità è «affidata a ciò che si possiede, ma l’avere, per sua stessa natura, è già aver perduto». L’analisi è stringente e sembra lasciare poco spazio al dibattito. Ma cos’è l’economia del dono? Come si qualifica la vita eterna, senza fare riferimento a concezioni religiose? Soprattutto, nell’attuale contesto di fallimento dell’economia di mercato, come si torna a costruire una società capace di lasciare all’uomo la gioia di aspirare alla vita eterna, perché il futuro è già reso evidente? Domande curiose, persino intriganti, alle quali risponde Carlo Sini, ex docente di Filosofia teoretica alla Statale di Milano, nonché accademico dei Lincei, in un volumetto tutto da godere, edito da Jaca Book e dal titolo più che esplicativo: Del viver bene.E allora, cosa c’entra la vita eterna con l’economia?«Lo scambio originario che mette in movimento la vita umana è il sacrificio a Dio, il dono a Dio. E se un uomo offre qualcosa al soprannaturale è perché ha visto la morte come qualcosa di strettamente legato alla vita. Altrimenti non avrebbe idea di una vita eterna come superamento della morte e non si impegnerebbe a chiederla per se stesso. Nei fatti non c’è stata società umana che non si sia basata su questo».Fin qui va bene, ma l’economia?«Questo meccanismo del dono è all’origine dell’economia: il cielo che dona alla terra; il divino che dona al mortale. Le società umane primarie si reggono sulla riproposizione di questo meccanismo del dono. È nel dono che io sono accolto in una appartenenza, sia essa la famiglia, il clan, la comunità allargata. Il dono dell’accoglimento è un vincolo al quale sono debitore per tutta la vita e che a mia volta devo restituire alla famiglia, al clan, alla comunità, ad altre vite. Così tutta la società è legata da vincoli di dono. Si parte da un’idea di sacro, con le grandezze e le miserie che seguono, ma con la certezza che nel dono non si è mai mercificati».Come si arriva alla mercificazione?«Nel dono del sacro ciò che conta è il simbolo: tu sei parte mia, noi siamo parte di un intero. Un po’ alla volta, però, il simbolo si traduce in segno, in scambio di denaro. Mano a mano che il denaro sostituisce il dono, l’uomo si libera dai vincoli della subalternità, della dipendenza. Anche i legami, anche gli affetti si comprano. E nasce l’illusione che il denaro ci liberi, quando invece ci lega alla natura della merce, ci accomuna alla merce, cioè ci mercifica: io sono la quantità di denaro che ho».Anche prima c’era la proprietà della terra...«Nell’originaria società del dono, però, la proprietà è indivisibile dall’appartenenza alla famiglia, alla comunità. Nella misura in cui io sono la vita che sono, la famiglia che sono, non posso perdere quello che ho se non con la morte. Ma se la mia proprietà si traduce solo in qualcosa di tangibile, in denaro, io la perdo idealmente fin dal principio, perché ci può sempre essere qualcosa che me ne priva: i ladri, il tempo che passa...».Questo vale anche per la ricchezza delle nazioni.«Certamente. Il prodotto interno lordo deve crescere ogni anno di più, altrimenti perde di valore, il tempo lo consuma, la speculazione e l’inflazione lo consumano. È la macroscopica evidenza che la mercificazione affida il nostro futuro, la vita eterna, a qualcosa di transeunte, a un avere che per definizione è già aver perduto. L’uomo, dominatore delle cose, ne diventa succube. È la logica della Borsa... Lo vada a chiedere ai greci, che ora hanno capito benissimo cosa significhi. Ecco, il nostro è il mondo della mercificazione fatale».

Grecia, Irlanda, Spagna, Italia, Europa... Come se ne esce?«Certo non se ne esce con strumenti finanziari, perché questo non fa altro che replicare gli errori precedenti. Serve una nuova idea di società, di gestione delle risorse, a livello filosofico, ancor prima che economico».

Una nuova idea di futuro, di vita eterna?«Esattamente. Le strade possono essere tante. Nel libro ne propongo due, che in qualche modo sono il ritorno all’economia del dono senza rinunciare al buono che è nella globalizzazione. Penso alla nascita di una "economia delle occasioni" e allo sfruttamento delle differenze, della biodiversità. Tutto questo in un contesto che si pone a difesa del bene comune».

Economia delle occasioni?«È la logica per la quale lo Stato, l’industria, il commercio, le banche, le famiglie, i singoli individui lavorano pensando a generare occasioni per chi viene dopo, a partire da adesso. Solo in questo modo è possibile impiantare un’economia del dono in quella dello scambio. La difesa della biodiversità ne è una conseguenza, perché la vita e quindi le occasioni sono nella diversità. La monocultura è la fine di ogni vitalità: la preda non può sfuggire al predatore... il predatore resta a pancia vuota. Difendere la biodiversità significa generare una nuova cultura del bene comune, cioè di ciò che consente occasioni per tutti».Echi di cristianesimo?«Il fondamento del progresso non è nella concorrenza ma nella collaborazione. E questo è un valore cristiano, perché nasce da quel concetto di fraternità che è nel dono di Gesù, Figlio del Padre e fratello di tutti».​

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