martedì 18 marzo 2014
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Che cos’è il non pro­fit? A questa doman­da in genere la mag­gior parte delle per­sone risponde che si tratta di un mondo che unisce realtà im­pegnate a fare del bene. Qualcu­no aggiunge che vi sono anche molti furbi. Pochi sanno dire per­ché il non profit si chiama così, e cosa rientra in questa definizione. Il problema della scarsa com­prensione di quell’universo che offre servizi di interesse pubblico in forma privata e con il vincolo della “non” distribuzione dei pro­fitti, esiste da sempre. O almeno da quando lo Stato e il Mercato si sono impadroniti della scena, co­stringendo tutto ciò che nasce dalla società civile organizzata a un ruolo residuale, una specie di “altro da” che non a caso viene anche definito “Terzo” settore. Al tema della “conoscenza” del non profit si lega un’altra que­stione, particolarmente attuale in questo momento: la necessità di dare una nuova casa all’“utilità sociale” e alle attività orientate al bene comune, superando il re­cinto del non profit. Un’esigenza che la Caritas in veritate di Bene­detto XVI ha espresso in modo netto, affrontando il tema dell’e­tica dell’impresa: «Sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al pro­fitto (profit) e organizza­zioni non finalizzate al profitto (non pro­fit) non sia più in grado di dar con­to completo del­la realtà, né di o­rientare effica­cemente il futu­ro ».  Nel dibattito si in­serisce ora un li­bro pubblicato da Laterza, Contro il non profit (pagine 182, euro 12,00), del sociologo Giovanni Moro, già presidente di Cittadinanzattiva. Rifacendosi al genere del “genus turpe”, Moro si dice «animato da uno spirito costruttivo» nel muovere le sue critiche. La tesi provocatoria è che il non profit «non esiste», ma è stato «inventato» dai ricercatori della Johns Hopkins University di Balti­mora, artefici negli anni ’90 della prima grande ricerca in­ternazionale su questo settore. Il perimetro eccessivamente ampio avrebbe prodotto «dati abnormi» nella fotografia di questo mondo – in Italia l’Istat conta trecento­mila enti, un milione di occupa­ti, quattro milioni di volontari – generando vari problemi. Tra le moltissime criticità, Moro se­gnala la «definizione residuale e negativa del non profit», la sua riduzione alla «dimensione eco­nomica », il «nocivo fiscalismo», il fatto di aver prodotto «un sen­so comune che attribuisce al Ter­zo settore virtù intrinseche» per cui tutto quello che fa «è consi­derato buono di per sé», mentre esiste un « dark side » molto am­pio, dove «un po’ tutto è possibi­le ». Per mettere ordine nel «magma del non profit» – universo che spazia dalle mense per i poveri al­le fondazioni ex bancarie, dalle società sportive alle coop sociali, dalle cliniche ai sindacati, dalle società sportive ai circoli ricreati­vi, ed regolato da una vera «ba­bele normativa» – Moro propone una «decostruzione» finalizzata a «superare la logica del primato delle forme» e arrivare così a «gra­duare i benefici in re­lazione al tipo di attività svol­ta ». Depu­rando la solida­rietà dal business. Troppo duro? Secondo Gian Pao­lo Barbetta, che è stato il coordi­natore italiano della ricerca della Johns Hopkins (si veda Senza sco­po di lucro, Il Mulino 1998), il pro­blema della definizione c’è, ma non è di facile soluzione: «Il me­rito di quel lavoro è stato di orga­nizzare e portare alla luce un mondo che non era mai stato mi­surato prima. Ora una migliore selezione si può fare stringendo i criteri, ma sapendo che defini­zioni che si basano su giudizi di valore più forti, difficilmente po­tranno essere condivise da per­sone con retroterra ideologici, culturali o religiosi differenti». L’assenza dello scopo del profit­to, per Barbetta, resta comunque un dato distintivo di un modo di operare. Questione non da poco, in un momento in cui anche l’impre­sa sociale, come prevede un pro­getto di legge appena deposita­to, si sta aprendo alla possibilità di remunerare il capitale investi­to. «Il fatto è che l’utilità sociale ha rotto gli argini e su questo terre­no l’economia capitalistica sfida sempre di più il Terzo settore – conviene Flaviano Zandonai, ri­cercatore esperto di imprese so­ciali e segretario di Iris Network – . Guardare all’impatto sociale più che alla forma giuridica oggi può essere molto utile. Tuttavia nella ricerca di indicatori ex ante della bontà e del valore sociale, la non massimizzazione del profitto, co­me anche la governance aperta re­stano precondizioni molto im­portanti ». C’è un’accusa che Zandonai re­spinge con forza: l’idea che l’«in­venzione » del non profit sia fun­zionale a imporre un modello di welfare all’americana nel quale lo Stato non è più centrale. «Il pre­supposto per cui il non profit ha avuto spazio perché il “pubblico” ha deciso di esternalizzare certi servizi è errato – dice Zandonai – . Lo sviluppo del non profit non è legato allo smantellamento dello Stato sociale, ma al fatto che ha innovato e proposto cose nuove che lo Stato non faceva». Luigi Corbella, commercialista milanese e consulente di molti enti, concorda sul fatto che non profit sia un termine “negativo” e che incorpora una visione azien­dalista, preferendo chiamarlo «privato sociale». Mette però in guardia sul punto dell’area grigia. «Nella confusione normativa qualcuno che sfrutta la situazio­ne c’è, lo sappiamo. Ma è un pro­blema di controlli, non di norme. I famosi ristoranti abusivi dei cir­coli culturali, il fitness e le attività di somministrazione e ricettive in generale, i casi più citati, sono at­tività commerciali per il fisco». C’è differenza, cioè, tra l’insieme eterogeneo del Terzo settore e le agevolazioni, che operano già u­na selezione, per quanto rifor­mabile. Non tutto è Onlus, in­somma. Ma come superare «la lo­gica del primato delle forme con cui – come argomenta Moro – le burocrazie dominano il mondo»? L’idea è riorganizzare le attività «ex non profit» in nuovi gruppi dove l’interesse generale è valu­tato «in base al modo in cui si rea­lizza » e agli effetti che produce. Riccardo Bonacina , direttore e­ditoriale di “Vita”, magazine del non profit, appoggia in tutto le te­si di Moro, ad eccezione della «tentazione statalista» che co­munque percorre il libro. «Un cambiamento è necessario – dice – a partire dalla riforma del Codi­ce civile che non prevede questo mondo. È ora di uscire dagli sche­mi americani, decidiamo quali sono le public obligations di que­sto Paese, quali gli interessi ge­nerali, a quali bisogni vogliamo rispondere e chi lo deve fare. Il cantiere va aperto». Ai “lavori”, peraltro già in corso, Moro fornisce un contributo in­teressante. C’è forse un rischio, in un’operazione che non vorrebbe accodarsi al filone che da qual­che tempo ha messo il non profit nel mirino: regalare il piccone a quegli interessi economici e i­deologici ostili alla società civile quando diventa “impresa” e che negano a priori il valore del prin­cipio di sussidiarietà.
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